Le emozioni del rischio estremo

Fiorenzo Ranieri

Cosa provano i “rischiatori” quando si lanciano nelle loro imprese? A lume di naso potremmo dire eccitazione, divertimento, piacere.. Una botta di “adrenalina” come racconta nella omonima canzone il gruppo musicale Finley (http://www.youtube.com/watch?v=f8vKEXF8VwM (1)), emozioni forti che fanno rimanere con il fiato sospeso e il cuore in gola chi osserva.

In realtà le emozioni della ricerca del rischio estremo sono un misto di risposte emotive diverse che si accavallano e si inseguono nel corso dell’azione. Va riconosciuto allo psicanalista ungherese Michael Balint (1959) una delle prime riflessioni sistematizzate sulle emozioni del rischio estremo. Balint era interessato alle caratteristiche della regressione, ovvero del ritorno, in determinati contesti o situazioni, a modalità di funzionamento mentale proprie dell’infanzia. Facendo perno sulla esperienza clinica ma anche su osservazioni condotte in luna – park, luoghi dove è possibile incontrare adulti alla ricerca di situazione – brivido (thrill – seeking), Balint definì la ricerca del rischio estremo come un tipo di azione che implica il lasciare e il ritrovare la sicurezza e che è caratterizzata da una mescolanza di paura, piacere e speranza fiduciosa. La visione di Balint deriva dalla teoria psicanalitica delle relazioni oggettuali: una azione rischiosa consente inconsciamente di ricontrattare il rapporto con i propri oggetti interni, ridefinendo la propria dipendenza/indipendenza da essi (Meneguz, 2001). Tornando alle emozioni, lo psicanalista individuò una sequenza tipica che ogni rischiatore vive quando affronta il rischio: avere coscienza del pericolo, esporsi alla minaccia, sperare di tollerare la paura, evitare il danno, ritornare sano e salvo al punto di partenza. Una sequenza che ricorda molto da vicino l’allontanamento dalla base sicura descritto da Bowlby (1988)o quella che Margareth Mahler ha chiamato fase esplorativa (Mahler et al., 1973);

Trenta anni dopo il libro di Balint, il sociologo americano Stephen Lyng pubblicava nel 1990 un articolo sull’American Journal of Sociology. Nel suo lavoro Lyng condannava il riduzionismo psicologico che spiegava le condotte estreme con tratti patologici della personalità, o in alternativa come compensazione di squilibri fisiologici (bisogno di attivazione equilibrato con una continua ricerca di sensazioni forti) o forme di auto distruttività. Il saggio ridefinisce in termini complessivi il senso dei comportamenti di ricerca del rischio estremo: per Lyng ricercare il rischio è un modo per star bene, per realizzare se stessi, per evitare di essere alienati da una società che istituzionalmente annulla l’identità individuale. Rischiare in forma estrema è una forma di anarchia sperimentale che riporta alla dimensione più naturale l’esperienza soggettiva. Le affermazioni di Lyng non si basano solo su opinioni personali. Egli mostra di conoscere il mondo del rischio estremo dal suo interno sin dalla scelta di utilizzare il termine Edgework (letteralmente attività al limite) mutuandolo dai lavori del giornalista e scrittore Hunter S. Thompson (2). Lyng frequenta il mondo dei rischiatori, in qualche modo ne fa parte, e il cuore dell’articolo è costituito da uno studio etnografico durato cinque anni e pubblicato nel 1986 (Lyng & Snow, 1986) condotto con paracadutisti. Lyng aveva avuto modo di condurre osservazioni e interviste semi-strutturate grazie al suo ruolo di pilota presso un centro per paracadutisti. Le sensazioni raccontate dai paracadutisti sono diverse, un vero cocktail di emozioni (Grosso, 2000): nella fase anticipatoria dell’esperienza, prima del lancio, un significativo grado di paura; dopo il lancio un senso di autorealizzazione, di purificazione e amplificazione del Sé, e la sensazione di possedere un maggior grado di autodeterminazione. Durante il lancio sensazioni di felicità ed eccitazione, iperrealismo, percezione alterata del tempo, l’impressione di controllare gli oggetti essenziali durante l’azione, o addirittura di sentirsi un tutt’uno con essi. Nell’insieme molte emozioni diverse, tra l’altro secondo gli intervistati solo in parte descrivibili perché troppo intense, e dunque ineffabili.

A tutt’oggi le ricerche sulle emozioni che si provano quando si rischia in modo estremo sono molto numerose. Tra i diversi studi è interessante quello condotto dal norvegese Herland (2009), che replica in qualche modo le ricerche condotte nel celebre lavoro di Lyng descritto sopra. La metodologia è interessante: i partecipanti all’indagine, tutti paracadutisti o B.A.S.E. jumper, rispondono ad alcuni questionari un giorno prima del lancio, immediatamente prima del lancio e 24 ore dopo assistendo ad un filmato che mostra essi stessi ripresi al lancio (contesto) e la caduta in soggettiva, registrata grazie ad una telecamera collocata sul casco. Le emozioni misurate sono state le seguenti: gioia e felicità; coinvolgimento, interesse ed entusiasmo; paura, angoscia e malinconia. Inoltre i soggetti hanno auto-valutato la capacità , la sensazione di libertà e di padronanza di sé. Ecco alcuni risultati. Ogni condotta rischiosa suscita emozioni sia negative che positive. Le emozioni si susseguono con un flusso dello stato di coscienza o flow inteso nel senso di Csikszentmihalyi (1992) e con consistenti differenze individuali. Ma il dato più interessante viene dal confronto tra giorno del lancio e giorno dopo. La paura provata realmente viene ridimensionata nel ricordo del giorno successivo. Viceversa l’impressione di aver provato piacere diventa più forte. Questo può essere spiegato con alcune modalità di funzionamento della mente: forti attivazioni (arousal) causano una modifica dei processi di memoria. Inoltre le aspettative precedenti ad un evento influenzano il ricordo che successivamente si avrà dell’evento stesso. In altri termini se mi aspetto che lanciarsi con il paracadute sarà una grande esperienza, dopo ricorderò che il lancio è stata una grande esperienza (Robinson & Clore, 2002).

Le emozioni che si provano durante una azione di ricerca volontaria del rischio sono molto potenti e capaci di influenzare e modellare la rappresentazione che si ha di se stessi. Per questo motivo alcuni psicologi hanno sottolineato le potenzialità di queste condotte piuttosto che gli aspetti pericolosi, patologici o potenzialmente additivi: “Così, piuttosto che essere (solo) un veicolo di (potenziale) di auto-distruzione o un sintomo di conflitti psichici non risolti, praticare uno sport estremo sembra offrire ai partecipanti un modo di estendere la propria gamma di esperienze e arricchire potenzialmente i propri modi di essere. Nel caso dello sport estremo, queste condotte comportano determinati rischi per la salute e la sicurezza personale, e sembra che i partecipanti siano fortemente consapevoli di questi rischi e del fatto che la possibile sofferenza sia una necessaria dimensione della esperienza. Queste osservazioni portano a chiederci in che misura praticare sport estremi può costituisce di per sé una esperienza terapeutica (Willing, 2008)” .

Se le esperienze di ricerca del rischio estremo sono in grado di portare un individuo a conoscere ed esplorare i propri limiti ridefinendo i confini del Sé, le emozioni provate, proprio per la loro potenza, possono nascondere una insidia. Chi affronta il pericolo e sopravvive può trovare l’esperienza così eccitante e forte da essere portato a ritentare, correndo in questo modo un rischio molto maggiore e occulto. Chi si avvicina ad un comportamento pericoloso scommette che riuscirà a superarlo e a cavarsela, ritiene di poter controllare il rischio. La trappola sta nel fatto che la vera scommessa non è con il pericolo, ma con le emozioni generate dalla situazione. Chi rischia calcola le sue probabilità nel riuscire o nel non riuscire, non la capacità di reggere e gestire l’impatto delle emozioni che nascono dall’esperienza. E tutto ciò può essere la premessa non per una crescita personale ma per una dipendenza comportamentale. Ecco perché si può diventa dipendenti da rischio, per un azzardo calcolato male. (Ranieri, 2006).

Fiorenzo Ranieri

Note

  1. Cerco una alternativa / che dia una scossa alla mia normalità / L’abitudine mi soffoca, non ce la faccio più / Mai nessuno capirà, questa è una emergenza / Ho bisogno di una scarica da 9000 volt / E va, la mia testa se ne va / 7 o non riesco a capire quello che mi succede / Sento il cuore che batte / Soffro di dipendenza da una strana sostanza / Io non posso star senza la mia dose di adrenalina / Prima o poi so che impazzirò / perché ne voglio sempre sempre sempre di più / Sono fatto per rischiare, per non accontentarmi mai / E va, la mia testa se ne va ( “Adrenalina”, Musica e testo dei Finley , 2008).
  2. Negli anni in cui Lyng scrive il suo articolo, Thompson è un personaggio noto per aver posto al centro del suo lavoro e della sua esperienza umana la ricerca del limite tra vita e morte, tra conscio e inconscio, tra normale e patologico. Il giornalista, creatore del cosiddetto gonzo journalism, uno stile di scrittura che combina il giornalismo convenzionale, le impressioni personali e il racconto inteso come scrittura creativa per produrre un personale punto di vista su avvenimenti e situazioni, aveva chiamato queste esperienze “edgework”. Gran parte delle esperienze estreme di Thompson furono basate sull’uso di stupefacenti, in particolare LSD, etere, mescalina, e raccontate nei suoi articoli e romanzi, il più noto dei quali è Paura e disgusto a Las Vegas, pubblicato nel 1971 (Fear and Loathing in Las Vegas). Dal libro è stato tratto l’omonimo film (titolo in Italia: Paura e delirio a Las Vegas) interpretato da Johnny Depp, amico del giornalista. Thompson è morto nel 2005, ufficialmente suicida.
  3. Il B.A.S.E. Jumping è uno sport estremo che consiste nel lanciarsi nel vuoto da varie superfici, rilievi naturali, edifici o ponti, e atterrare mediante un paracadute.Bowlby J. (1988). A Secure Base: Parent-Child Attachment and Healthy Human Development. New York: Basic Books (trad. it.: Una base sicura. Milano: Cortina, 1989).Grosso, L. (2000) Un cocktail di emozioni – Motivazioni al rischio e fattori protettivi. Animazione Sociale 30(157): 54-60.Lyng, S., & Snow, D.A. (1986). Vocabularies of motive and high risk behavior: the case of skydiving. Advances in Group Processes, 3, 157 79.Meneguz, G. (2001). Comprendere la dimensione rischio. Cenni sul contributo di Michael Balint. Attualità in Psicologia, 2001, vol. 16, 3/4: 215-220.Robinson, M. D., Clore, G. L. (2002). Belief and feeling: Evidence for an accessibility model of emotional self-report. Psychological Bulletin, 128(6), 934-960.

Bibliografia

Bowlby J. (1988). A Secure Base: Parent-Child Attachment and Healthy Human Development. New York: Basic Books (trad. it.: Una base sicura. Milano: Cortina, 1989).

Csikszentmihalyi, M. (1992). Flow. London: Rider.

Grosso, L. (2000) Un cocktail di emozioni – Motivazioni al rischio e fattori protettivi. Animazione Sociale 30(157): 54-60.

Lyng, S. (1990). Edgework: a social psychological analysis of voluntary risk taking. The American Journal of Sociology, 95(4), 851 886.

Lyng, S., & Snow, D.A. (1986). Vocabularies of motive and high risk behavior: the case of skydiving. Advances in Group Processes, 3, 157 79.

Mahler M.S., Pine F., Bergman, A. (1973). The Psychological birth of the human infant – Symbiosis and individuation. New York: Basic Books. (Tr. it: La nascita psicologica del bambino – simbiosi e individuazione. Torino: Bollati Boringhieri – 1978)

Meneguz, G. (2001). Comprendere la dimensione rischio. Cenni sul contributo di Michael Balint. Attualità in Psicologia, 2001, vol. 16, 3/4: 215-220.

Ranieri, F. (2006) Dipendenze patologiche da rischi estremi. Personalità/Dipendenze 12(3): 295-306.

Robinson, M. D., Clore, G. L. (2002). Belief and feeling: Evidence for an accessibility model of emotional self-report. Psychological Bulletin, 128(6), 934-960.

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