Hikikomori ad Arezzo

Fiorenzo Ranieri

La manifestazione del ritiro sociale (social withdrawal) a partire dall’infanzia fino all’età adulta è ben noto ai professionisti della salute mentale. Di per sé il ritiro non può essere ritenuto un comportamento clinicamente rilevante. E tuttavia se alcuni individui, adulti o bambini, appaiono felici di spendere una larga parte del loro tempo lontani dagli altri senza che questo costituisca una forma di disagio, il ritirarsi dalle relazioni può costituire un segno di difficoltà sociali o emotive nascoste [1].

Sul finire del secolo scorso il termine “hikikomori” coniato nel 1998 dallo psichiatra giapponese Saitō [2] ha incominciato a farsi strada nella letteratura sia antropologica che psichiatrica per definire una particolare forma di ritiro sociale diffusasi in Giappone a partire dalla fine degli anni settanta. Saitō elenca i segni che possono caratterizzare un hikikomori: ritiro sociale per almeno sei mesi, fobia scolare e ritiro scolastico, antropofobia, automisofobia, agorafobia, manie di persecuzione, sintomi ossessivi e compulsivi, comportamento regressivo, evitamento sociale, apatia, letargia, umore depresso, pensieri di morte e tentato suicidio, inversione del ritmo circadiano di sonno veglia e comportamento violento contro la famiglia, in particolare verso la madre. Gli hikikomori vengono definiti gli “eremiti in famiglia” (family heremits [3]) o gli “eremiti della camera da letto” (bedroom heremits [4]), ma ricerche successive hanno evidenziato che il soggetto in ritiro sociale può esprimere anche altre modalità di comportamento, ad esempio può uscire a mezzanotte per una passeggiata o approfittare dell’orario di chiusura per recarsi in un negozio senza rischiare di incontrare qualcuno. Di certo eviterà tutte le occasioni che portano un contatto diretto con gli occhi, ad esempio luoghi dove ci si può salutare, bar, parrucchieri ecc. [5].

L’ampia diffusione del fenomeno tra adolescenti e giovani adulti ha spinto agli inizi degli anni duemila il Ministero della Salute giapponese a condurre uno studio sistematico sugli hikikomori [6]. I risultati hanno messo in evidenza la rilevanza sociale di questa forma di ritiro. La ricerca ha conteggiato ben 14.000 consultazioni per hikikomori presso i centri di salute mentale giapponesi in un anno[1]. Il Ministero, pur affermando che il comportamento hikikomori non può essere considerato una sindrome, ha definito delle linee guida che ne facilitassero l’individuazione. L’hikikomori ha uno stile di vita centrato sulla propria casa; ha un ritiro completo dalla società che supera i sei mesi; presenta un rifiuto scolastico e/o lavorativo; al momento di insorgenza del fenomeno non viene diagnosticata schizofrenia, ritardo mentale o altre patologie psichiatriche rilevanti; i soggetti con ritiro o perdita di interesse per la scuola o il lavoro ma che continuano a mantenere relazioni sociali non sono considerati hikikomori.

Sebbene il Ministero della Salute giapponese ritenga che il comportamento dell’hikikomori non sia un quadro sindromico, molti operatori sanitari giapponesi hanno una opinione diversa. In una recente ricerca pediatri, psichiatri, psicologi, infermieri e studenti hanno concordato sul fatto che la condizione di hikikomori è indice di un disturbo [8]. Gli studi antropologici, allontanandosi da un approccio esclusivamente psicopatologico, hanno messo in relazione il fenomeno hikikomori con le specifiche caratteristiche della società giapponese. Le persone che hanno scelto una condizione di autoreclusione permanente sono stati descritti come bersaglio di pressioni sociali insostenibili (aspettative di un’educazione prestigiosa appannaggio però di pochi; morboso rapporto madre-figlio rafforzato dall’assenza del padre impegnato nel lavoro; scuola con ritmi sostenuti e carichi di lavoro considerevoli) a cui replicherebbero con una silenziosa protesta. La reclusione apparrebbe così l’unico strumento per manifestare il proprio disagio alla comunità o il proprio dissenso per le sue norme [9]. La auto-reclusione ha regole rigide: gli hikikomori sono soliti pranzare e cenare nella propria stanza e si recano in bagno con percorsi che, per tacita intesa familiare, vengono lasciati il più possibile non frequentati. Il totale rifiuto di una qualunque tipologia di rapporto interpersonale riguarda non solo conoscenti, amici, compagni di scuola, ma anche i membri del nucleo familiare: in casi estremi l’unica forma di interazione con i genitori è il passaggio del cibo attraverso la porta appena socchiusa della propria stanza. Gli unici contatti con “il di fuori” avvengono, se avvengono, via internet, nei blog, nelle chat [10].

Parte della letteratura internazionale aveva definito l’hikikomori una sindrome culturalmente caratterizzata o cultural bound syndrome [11], ma il fenomeno ha ottenuto una risonanza sempre maggiore a livello internazionale quando ci si è resi conto che il fenomeno non riguardava esclusivamente l’Estremo Oriente. La pubblicazione di articoli che descrivevano casi analoghi in realtà completamente diverse come Spagna, Francia, Stati Uniti, Australia e Regno Unito oltre che in diversi paesi asiatici ha fatto abbandonare la prima definizione, sostituita dalla tesi che l’hikikomori trascenda il contesto culturale pur essendone influenzato [12]. I clinici occidentali hanno incontrato con frequenza sempre maggiore adolescenti e giovani che manifestavano i sintomi degli hikikomori riferiti da Saitō nella descrizione del 1998.

In Italia diversi lavori sia di taglio antropologico che psicologico clinico e psichiatrico hanno riferito di casi di adolescenti con comportamenti molto simili a quelli dei coetanei giapponesi. È stata formulata l’ipotesi che tale diffusione fosse riconducibile alla rivoluzione culturale rappresentata dalla immediatezza e alla diffusione del web 2.0, quello dei social network [13]. Le indagini nel nostro paese in una fase iniziale sono state avviate principalmente per indagare il fenomeno della così detta dipendenza da Internet, ma hanno rivelato l’esistenza di una fascia di adolescenti che riduce il propria rapporto con il mondo alla sola relazione mediatica, e talvolta evita anche questa ultima forma di contatto. La cooperativa sociale Il Minotauro, sotto la direzione scientifica dello psichiatra Pietropolli Charmet, ha istituito a Milano il “Consultorio gratuito per gli adolescenti ritirati che abusano delle nuove tecnologie”. La cooperativa ha avviato una ricerca – intervento sulla problematica adolescenziale emergente del ritiro sociale. Tra il gennaio 2012 e l’aprile 2014 il consultorio milanese ha preso in carico 139 adolescenti dai 9 e i 24 anni d’età. Circa la metà dei soggetti manifestavano comportamenti riconducibili a quelli degli hikikomori. Il trattamento clinico e socio – riabilitativo, basato su interventi articolati (consultazione con i genitori, interventi domiciliari, laboratori, psicoterapia individuale) ha consentito di raccogliere molte informazioni utili per la definizione di programmi terapeutico – riabilitativi con questi pazienti decisamente non collaborativi [14], un patrimonio di conoscenze cliniche al momento unico nel panorama italiano.

Hikikomori ad Arezzo

L’Unità Funzionale Salute Mentale Infanzia e Adolescenza della Az. USL 8 Arezzo (UFSMIA) ha ricevuto negli ultimi anni alcune richieste di presa in carico di adolescenti che presentavano forti analogie con i casi descritti come hikikomori. Le richieste sono state presentate dai genitori seguite, quando le assenze da scuola avevano superato il limite prescritto dalla legge e i soggetti avevano meno di sedici anni, dalla segnalazione del Servizio Sociale attivato dalle autorità locali per evasione dell’obbligo scolastico. Molti elementi accomunavano questi ragazzi ai “ragazzi ritirati”. In primo luogo gli adolescenti non andavano a scuola e nemmeno uscivano di casa. Queste condotte si accompagnava poi a un progressivo annullamento delle relazioni con i pari e il ritiro nella propria camera, comportamento che in uno dei casi osservato era diventato estremo al punto di rendere difficoltoso il recarsi in bagno per i propri bisogni personali. Il ciclo veglia – sonno era in pratica per tutti i soggetti fortemente alterato, con notti passate in buona parte in bianco e risvegli a mattinata inoltrata o nel primo pomeriggio. Il tempo in camera non era speso, come ci si poteva aspettare, utilizzando Internet, ma piuttosto era lasciato scorrere senza far nulla o, nel migliore dei casi, con attività solitarie (disegno, videogiochi, lettura di fumetti, navigazione in rete per raccogliere notizie e non sui social network o in chat). Uno degli adolescenti giunti all’UFSMIA aveva trascorso alcune settimane steso sul letto, sveglio ma al buio. I rapporti familiari sembravano avere una costellazione tipica: un padre che era stato per lungo tempo assente, e che ora, nonostante la propria disponibilità, non riusciva a recuperare la relazione con il figlio/figlia; una madre molto legata al proprio figlio ma per motivi diversi in costante ansia per le azioni e scelte di quest’ultimo e poco capace di gestire il rapporto. Non venivano riferiti disturbi del comportamento alimentare né sintomi che indirizzassero verso condizioni psicopatologiche come psicosi, ritardo mentale, autismo. Quasi tutti i ragazzi di cui si è venuti a conoscenza avevano uno o più animali di compagnia, spesso cani, a volte gatti. Gli adolescenti incontrati sembravano più che depressi, apatici, più che fobici disinteressati al mondo, più che evitanti privi del desiderio di stabilire relazioni interpersonali significative. E tuttavia la condizione di fragilità emotiva era palpabile e ha richiesto una grande cautela da parte dei clinici nei primi incontri per stabilire una significativa relazione terapeutica.

Oltre agli adolescenti completamente ritirati i genitori hanno portato al Servizio ragazzi e ragazze che si potrebbero definire “sulla strada del ritiro”. Non tutti i segnali di disagio erano in questo caso presenti. In più di una situazione ad esempio i contatti con i pari erano sostanzialmente interrotti mentre continuava la frequenza scolastica, vissuta come una esperienza solitaria in una classe composta ormai da estranei.

Ci si è presto resi conto che tra i tanti segnali di malessere l’attenzione di famiglie e agenzie sociali si concentra soprattutto sulle assenze da scuola. Per comprendere meglio il fenomeno è stato utile differenziare tra adolescenti con ritiro sociale e adolescenti che abbandonano la scuola per altre forme di disagio. L’adolescente hikikomori può essere definito un caso specifico tra le varie forme di abbandono scolastico dato che lascia la scuola in conseguenza di una forma di ritiro ben più ampia, estesa di fatto a quasi tutte le relazioni sociali e personali.

Dai contatti con i genitori, la scuola, gli assistenti sociali è maturata l’ipotesi che i ragazzi ritirati giunti alla osservazione degli psicologi e neuropsichiatri infantili dell’UFSMIA fossero solo un numero ridotto, indice di un fenomeno probabilmente più esteso. Queste considerazioni hanno avviato una ricerca di tipo epidemiologico per quantificare le condotte di ritiro sociale tra gli adolescenti di Arezzo. Dopo alcune discussioni, preso atto del fatto che gli hikikomori possono vivere nascosti per anni grazie all’appoggio delle proprie famiglie, si è deciso di provare a raccogliere informazioni con l’aiuto della scuola, la collaborazione del MIUR di Arezzo e in particolare dell’Ufficio Studi e Programmazione.

I risultati della indagine condotta da Ranieri, Andreoli, Bellagamba, Franchi, Mancini, Pitti, Stoppielli sono scaricabili dal link Adolescenti tra abbandono scolastico e ritiro sociale – il fenomeno degli Hikikomori ad Arezzo – Ranieri 2015.pdf

Bibliografia

  1. Rubin K. H., Coplan R.J., Bowker J.C. (2009). Social Withdrawal in Childhood. Annu. Rev. Psychol. 2009 ; 60: 141–171.
  2. Saito T. (1998). Shakaiteki hikikomori: owaranai shishunki (Social withdrawal: a neverending adolescence). Tokio: PHP Shinsho.
  3. Lewis, L. (2004) ‘Family hermits turn killer’, The Times, 11 Nov. [online]. Available at: http://search.epnet.com/login.aspx?direct¼true&db¼nfh&an¼7EH195421820.
  4. Ryall, J. (2003) ‘Japan’s lost generation of bedroom hermits’, Scotland on Sunday, 3 Aug. [online]. Available at: http://scotlandonsunday.scotsman.com/international.cfm?id¼837952003.
  5. Wong V. (2009) Youth locked in time and space? Defining features of social withdrawal and practice implications. Journal of Social Work Practice: Psychotherapeutic Approaches in Health, Welfare and the Community, 23:3, 337-352.
  6. Ministry of Health, Labour & Welfare (2003). Community mental health intervention guidelines aimed at socially withdrawn teenagers and young adults. Tokyo: Ministry of Health, Labour & Welfare.
  7. Suwa M. & Suzuki K. (2013). The phenomenon of “hikikomori” (social withdrawal) and the socio-cultural situation in Japan today. Journal of Psychopathology 2013;19:191-198.
  8. Tateno M., Park T.W., Kato T.A., Umene-Nakato W., Saito T. (2012): Hikikomori as a possible clinical term in psychiatry: a questionnaire survey. BMC Psychiatry 2012 12:169.
  9. Meligrana D. (2013). La silenziosa protesta degli Hikikomori Antrocom Online Journal of Anthropology 2013, vol. 9. n. 1
  10. Ricci C. (2008). Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione. Milano, Franco Angeli.
  11. Aguglia E., Signorelli M.S., Pollicino C., Arcidiacono E., Petralia A. (2010). Il fenomeno dell’hikikomori: cultural bound o quadro psicopatologico emergente? Giorn. Ital. Psicopat. 2010;16:157-164
  12. Kato TA, Tateno M, Shinfuku N. (2012). Does ‘hikikomori’ syndrome of social withdrawal exist outside Japan? A preliminary international investigation. Soc Psychiatry Psychiatr Epidemiol 2012;47:1061-75.
  13. De Michele F., Caredda M., Delle Chaie R., Salviati M., Biondi M. (2013).Hikikomori (ひきこもり): una culture-bound syndrome nell’era del web 2.0. Riv Psichiatr 2013;48(4):354-358.
  14. Cooperativa Minotauro (2014). La bruttezza immaginaria – Intervento clinico con ragazzi ritirati. Atti dell’evento culturale tenutosi a Milano il 9 e 10 maggio 2014. http://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/Generalistic-images/Documenti/ricerca.pdf
  15. Borovoy A. (2008). Japan’s Hidden Youths: Mainstreaming the Emotionally Distressed in Japan. Cult Med Psychiatry (2008) 32:552–576

[1] Dati epidemiologici più recenti riferiscono di circa 410.000 casi in tutto il Giappone; stime indirette ipotizzano 600.000 casi tra giapponesi di età compresa tra i 20 e i 40 anni e oltre il milione di soggetti se si considera anche la fascia adolescenziale [7].

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