Frankenstein o del dismorfismo corporeo

Fiorenzo Ranieri –

Il disturbo di dismorfismo corporeo (Body Dysmorphic Disorder, BDD) consiste in una persistente e dolorosa preoccupazione per supposte malformazioni, difetti e imperfezioni fisiche e corporee[1]. La bruttezza immaginaria può essere uno dei principali motivi per cui un adolescente decide di ritirarsi dalla scuola e dalla società. Scrive Pietropolli Charmet: “Ho conosciuto molti adolescenti convinti di essere brutti, altri non lo erano affatto, e altri ancora erano “carini”, come si suol dire alla loro età. Però erano convinti che la bruttezza li caratterizzasse in modo implacabile e ne traevano le debite conclusioni. Gli adolescenti (..) prima o poi rinunciavano al supplizio quotidiano. Inventavano una scusa relativa (..) e scomparivano dalla circolazione o meglio ritiravano dalla visibilità il proprio corpo. (..) Non è facile accorgersi che i ragazzi soffrono per la loro incurabile bruttezza, perché se ne vergognano[2].

Di seguito riporto alcune riflessioni sul dismorfismo corporeo tratte dal libro di Alessandra Lemma “Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee” del 2011. Il sintomo della Bruttezza è illustrato attraverso la complessa analisi del racconto “Frankenstein” di M. Shelley, in cui lo scienziato Frankenstein non è colpevole di aver creato un mostro ma di non essere capace di amarlo nonostante il suo aspetto, perché sia la bellezza che la bruttezza non costituiscono proprietà intrinseche dell’altro ma rappresentano un’esperienza emotiva interna, identificata proiettivamente nel corpo dell’altro: quindi, sia la bellezza che la bruttezza hanno un senso interattivo ed intersoggettivo [3]. Il brano proposto è tratto dal quarto capitolo del libro.

“ESSERE VISTI O ESSERE GUARDATI”[4].

“Demonio”, esclamai, “e tu osi avvicinarti a me? [ … ] Vattene, insetto disgustoso!

Anzi, rimani perché io possa calpestarti fino a ridurti in polvere.”

“Mi aspettavo questo tipo di accoglienza. [ … ]Tutti gli uomini odiano i

disgraziati; e allora, quanto devo essere odiato io, che sono la più miserabile

tra tutte le cose viventi! Eppure tu, il mio creatore, detesti e respingi

me, la tua creatura, a cui sei legato da un nodo che può essere sciolto solo

dall’annientamento di uno di noi due. [… ]Tu, il mio stesso creatore, mi

respingi; che cosa posso quindi sperare di ottenere dai tuoi simili, che

non mi devono nulla?” [ … ]

“Vattene! Liberami dalla vista del tuo odioso aspetto.”

SHELLEY, 1818

IL DISMORFISMO CORPOREO

“Mamma, se fossi un insetto mi stringeresti tra le braccia? Mi vorresti bene lo stesso?” chiese il Piccolo. “Certo caro” rispose la Mamma. “Ti voglio tanto bene, e te ne vorrei anche se tu fossi un insetto.” “Anche se … anche se …” ridacchiò il Piccolo. “Anche se fossi un coccodrillo?” “Anche se tu fossi un coccodrillo, prima di metterti a letto ti abbraccerei forte e ti direi quanto ti voglio bene” lo rassicurò la Mamma. (Gliori, 1999).

Insetti e coccodrilli non sono le creature più tenere della terra. Questa storia suggestiva parla dell’ansia che quello che la mamma vede quando guarda il suo bambino sia percepito come bello e amabile nonostante i sentimenti da insetto o da coccodrillo del bambino, che naturalmente tutti quanti proviamo. Spesso parliamo di “cattivi” sentimenti, come se i sentimenti potessero essere visti e giudicati affascinanti, piacevoli o repellenti agli occhi della mente. Una delle funzioni della madre sufficientemente buona è quella di aiutare il bambino a tollerare in se stesso le sensazioni da insetto o da coccodrillo, proprio in quanto esse possono essere viste e accettate da lei. In questo senso la bellezza è soggettiva[5]. In quanto psicoterapeuti, probabilmente siamo tutti abituati a lavorare con pazienti che manifestano un dismorfismo dell’immagine corporea e/o per i quali il loro aspetto fisico è una fonte di ansia e sofferenza a diversi livelli. Poiché i pazienti con questo tipo di preoccupazione suoneranno familiari a molti terapeuti, è importante essere chiari circa le specifiche caratteristiche dei pazienti di cui mi occupo in questo capitolo. Con questo spero di delineare uno spettro di difficoltà che incontreremo clinicamente riguardanti la sofferenza per il corpo dato e le misure prese per alterarlo o nasconderlo in qualche modo.

I pazienti per i quali il dismorfismo corporeo e l’odio per il proprio corpo è un elemento nucleare primario rappresentano soltanto una minoranza dei pazienti con disturbi dell’immagine corporea. Per questi pazienti, comunque, l’odio di parti del corpo occupa la loro mente e le sedute della terapia, spesso rimuovendo il significato di ogni interazione attraverso la concretizzazione sia del problema (per esempio, una parte del corpo danneggiata) sia della soluzione (per esempio, la chirurgia estetica). Attraverso questo lavoro mi sono interessata alle diverse qualità del transfert e del controtransfert che ho notato e su cui mi soffermerò più avanti. Questi pazienti mostrano un’accresciuta preoccupazione per imperfezioni normalmente trascurabili o del tutto immaginarie nel loro aspetto. La preoccupazione per parti del corpo brutte è imperante, persistente e molto angosciante, e deve essere distinta da ansie più transitorie per l’aspetto fisico o dal disagio per il proprio corpo, anche soltanto sulla base della gravità dei sintomi di questi pazienti che può avere delle implicazioni per il trattamento. Queste persone presentano un danno significativo nel funzionamento perché la preoccupazione per il corpo porta a tentativi ossessivi, e a volte estremi, di nascondere e/o cambiare il proprio aspetto, o attraverso la chirurgia o attraverso interventi fai-da-te (per esempio, l’uso della carta vetrata per rimuovere le cicatrici o della candeggina per schiarire la pelle), che spesso mettono in serio pericolo la persona stessa.

Molti trovano difficile lasciare la propria casa per paura di essere visti, oppure escono soltanto di notte, quando il buio fornisce la copertura di cui hanno bisogno per proteggersi dallo sguardo dell’altro. Quando rilessi Frankenstein mi tornò in mente questo, perché anche la creatura di Frankenstein viaggiava “solo di notte per paura di incontrare un volto umano” (Shelley, 1818). Per i pazienti con dismorfismo corporeo questa reclusione forzata contribuisce a farli sentire in qualche modo messi da parte, di una specie diversa – parimenti a come si sentiva la creatura di Frankenstein. Alcuni evitano gli specchi in generale, convinti che il riflesso confermerà soltanto la loro sensazione di essere brutti e diversi, mentre altri riusciranno a gestire la situazione soltanto controllando il loro aspetto ossessivamente allo specchio. La creatura di Frankenstein scopre se stessa come diversa una volta che coglie la sua immagine sul riflesso dell’acqua:

Mantenevo la speranza, è vero, ma la perdevo ogni volta che vedevo il mio riflesso nell’acqua.

E ancora:

In un primo momento mi ritrassi, incapace di credere che quell’immagine riflettesse proprio me.

Come suggerisce Brooks: [. .. ] in uno scenario che riflette e capovolge quello di Lacan [. . .] l’immagine esterna – quella allo specchio – presenta il corpo nella sua mancanza di interezza mentre la comprensione interna del corpo l’aveva inteso fino a quel momento ipoteticamente intero […] l’immagine allo specchio diventa la negazione della speranza, disgiungendo il mostro dal desiderio. (Brooks, 1995).

Direi che la creatura non si è mai sentita intera. Lo specchio non riesce a mantenere la sua promessa di unità illusoria proprio a causa dell’esperienza precoce fatta dalla creatura dello sguardo disgustato di Frankenstein e del suo conseguente rifiuto. Quando i primi scambi fisici tra il bambino e l’oggetto del desiderio inscrivono la bruttezza nel corpo, l’immagine speculare può soltanto confermare ciò che è già prefigurato sul corpo attraverso la proiezione. Questo viene vissuto dolorosamente dai pazienti con marcato dismorfismo corporeo, laddove il fare affidamento sullo specchio, per rassicurarsi del fatto che sono riusciti a nascondere la loro bruttezza, è sia anticipato come una fonte di sollievo sia invariabilmente sperimentato come conferma della loro bruttezza una volta che hanno messo gli occhi sul loro riflesso (che sia su specchi reali o attraverso quello che loro immaginano gli altri vedano). Alcune interessanti ricerche suggeriscono che i pazienti con dismorfismo corporeo rivelano un’errata interpretazione delle espressioni emotive degli altri come negative (Buhlmann et al., 2004). Coerente con questa trattazione è l’osservazione fatta dagli autori che questi pazienti, rispetto ai controlli, valutavano in maniera significativa come deridenti una serie di espressioni neutrali, suggerendo che lo sguardo dell’altro è invariabilmente sentito come ostile verso il Sé. Mentre quasi sicuramente vi è in qualche misura una comune patologia narcisistica al di sotto di questo tipo di presentazione psicopatologica, la mia esperienza è che ci sono anche differenze qualitative, tra questi pazienti, che possono avere implicazioni cliniche. In altre parole, sto suggerendo che il dismorfismo corporeo ha bisogno di essere considerato lungo uno spettro di gravità, laddove i pazienti più gravemente disturbati possono dimostrarsi meno accessibili al trattamento psicoanalitico e/ o possono richiedere altri tipi di aiuto insieme al trattamento analitico a causa del rischio di autolesionismo e/ o crollo psicotico. La letteratura esistente sui pazienti con disturbo di dismorfismo corporeo, che dal punto di vista descrittivo hanno in comune le caratteristiche che ho appena delineato, è degna di considerazione in quanto sottolinea coerentemente la gravità del danno funzionale nei pazienti che presentano un’intensa preoccupazione primaria per una parte o più parti del corpo brutte: alcuni pazienti, per esempio, non sono in grado di lasciare la casa perché si sentono troppo brutti oppure passano diverse ore a truccarsi e a controllarsi ossessivamente allo specchio (Phillips et al., 1993; Neziroglu et al., 1996; Phillips, Diaz, 1997; Dyl et al., 2006)[6]. È importante il fatto che la letteratura psichiatrica ci metta in allerta rispetto al rischio potenziale di autolesionismo in questi pazienti. L’ideazione suicida e i tentativi di suicidio sono comuni, con un tasso di tentativi durante l’arco di vita del 22-24 % (Veale et al., 1996; Dyl et al., 2006). Uno studio sul tasso di suicidio in 200 adolescenti a cui era stato diagnosticato un disturbo di dismorfismo corporeo ha trovato che il 44,4 % aveva tentato il suicidio (Dyl et al., 2006). Sebbene io stia suggerendo che la letteratura psichiatrica sul disturbo di dismorfismo corporeo sia di qualche rilevanza per la pratica analitica, il lavoro clinico con questi pazienti ben presto mette in luce che la diagnosi offusca importanti differenze qualitative tra individui che superficialmente si presentano con preoccupazioni simili riguardanti il corpo. È importante il fatto che la diagnosi trascuri l’elemento fondamentale di queste presentazioni, propriamente l’odio di ciò che il corpo detestato inconsciamente rappresenta. Questo ci porta al cuore della questione: comprendere e aiutare questi pazienti è importante per comprendere la qualità prevalente delle loro identificazioni inconsce. Nella mia esperienza con pazienti il cui odio di una parte o di più parti del corpo è onnicomprensivo, due qualità della madre-come-specchio sono emerse attraverso il transfert e il mio controtransfert: la madre come- specchio (la madre interiore) può essere sentita come qualcuno che fornisce uno specchio unidirezionale opaco o attivamente distorcente e/ o rifiutante (o che guarda al bambino con sguardo di odio o che investe narcisisticamente in maniera inappropriata sull’aspetto esteriore del bambino). Queste distinzioni non sono mai naturalmente così nette nella pratica; piuttosto sono qui usate come tentativi di concettualizzare alcuni stati della mente – diversamente declinati dalla relativa roccaforte di un “Super” -io, come continuerò a descrivere in seguito – che possono essere osservati attraverso lo svilupparsi del transfert di questi pazienti. Le distinzioni dovrebbero essere lette come denotanti gradi di difficoltà lungo uno spettro in cui l’odio del corpo è una caratteristica primaria di come si presenta il paziente. Esse possono aiutarci nella comprensione del motivo per cui alcuni dei pazienti con un’immagine del corpo distorta sono costretti a cercare la chirurgia estetica e possono dimostrarsi altamente resistenti a pensare il loro dolore.

[1] Scarinci A., Lorenzini R. (2015). Disturbo di dismorfismo corporeo: Assessment, diagnosi e trattamento. Trento: Edizioni Centro Studi Erickson

[2] Pietropolli Charmet G. (2013). La paura di essere brutti – Gli adolescenti e il corpo. Milano: Raffaello Cortina Editore

[3] Maria Naccari Carlizzi: (2012). Sotto la pelle. http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2237:sotto-la-pelle&catid=244

[4] tratto dal cap IV della monografia di Alessandra Lemma (2011). Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee. Milano: Raffaello Cortina. Una versione di questo capitolo è apparsa in A. Lemma, “Being seen or being watched? /A psychoanalytic perspective on body dismorphia”, in International Journal of Psychoanalysis, 4, 2009, pp. 753 -771.

[5] in inglese l’espressione fa riferimento in maniera più pregnante alla funzione della visione “Beauty is in the eye of the beholder” [la bellezza è nell’occhio di chi 11uarda 1. [NdT]

[6] L’uomo dei lupi, con i suoi difetti immaginari del naso e il suo controllo ossessivo allo specchio, ne è un buon esempio (vedi Brunswick, 1971).

Ogni vostro commento sarà gradito e di aiuto - Fiorenzo Ranieri