Il ritiro sociale – riflessioni psicoanalitiche

Elisabetta Bellagamba

Il ritiro sociale si configura come un blocco ed uno scacco evolutivo, una mancata realizzazione della nascita sociale ed è caratterizzato da isolamento, assenza di relazioni di amicizia e da una lontananza dagli interessi tipici dell’età (Scodeggio, 2014). Nelle fasi anteriori al ritiro conclamato si possono rintracciare delle difficoltà relazionali: la rete è povera, le uniche amicizie che questi giovani intrattengono provengono dal mondo dell’infanzia e dall’ambiente famigliare mostrando una fatica ad instaurare nuovi legami sociali e di appartenenza. Queste difficoltà si palesano, soprattutto, nel contesto scolastico.ritiro-sociale-preadolescenteLuogo che diventa lo scenario dove si verifica la crisi più acuta: il contatto con il gruppo classe lentamente diventa rarefatto, la frequenza diminuisce e le assenze si fanno sempre più assidue e prolungate. Così ha inizio la fase acuta del ritiro che si manifesta nella sua rigidità. Il mondo dei coetanei diventa distante e lontano ed è accessibile, in alcuni casi, solo attraverso il computer e i giochi virtuali (Charmet, 2014). Il ritiro può manifestarsi in varie forme, come specifica Manzitti (2014), e può essere descritto lungo un continuum che va dal totale isolamento sociale con conseguente rifiuto di qualsiasi contatto comprese le relazioni virtuali ad un isolamento in cui la frequenza scolastica resiste seppur ci sia un crescente aumento di assenze. La causa del ritiro è rintracciabile in una difficoltà ad affrontare il mondo reale (Piotti, 2014) e a costruire legami sociali e di amicizia con i coetanei (Scodeggio, 2014). I giovani ritirandosi come degli eremiti nella loro camera comunicano la loro fatica a tollerare lo sguardo altrui a causa della vergogna e del senso di inadeguatezza che sperimentano rispetto agli altri. La loro stanza diventa un nido ed un rifugio dal mondo esterno vissuto come stressante e frustrante (Ricci, 2011). I ragazzi ritirati o a rischio di ritiro evitano il tempo dell’adolescenza con i suoi compiti evolutivi aggrappandosi al mondo dell’infanzia oppure catapultandosi nel mondo degli adulti. In entrambe i casi il tempo presente non viene vissuto (Charmet, 2014).

Nelle storie cliniche di questi giovani, spesso, si riscontra un legame simbiotico con la madre ed un padre in en passe nella sua funzione (Piotti, 2014; Aguglia et al, 2010; Ricci, 2011, 2008). Le madri intrecciano con i loro figli una relazione intensa e fusionale per un tempo protratto che ostacola la separazione fisica e spaziale del bambino dal corpo materno: è come se il piccolo dovesse maturare nelle braccia della mamma (Rosso, 2011 p.10). Il concetto di amae, introdotto da Doi (1973), sintetizza il tipo di legame che viene ad instaurarsi tra la coppia madre-bambino (Piotti, 2014; Rossi, 2011; Ricci, 2008). Amae significa “dipendere da” e viene utilizzato per descrivere il desiderio passivo di essere amati e di avere una relazione esclusiva (Sisodia, Sheth, Wolf, 2007). Specificatamente è un sentimento che nasce nella seconda metà del primo anno di vita del bambino quando questi inizia a differenziare e riconoscere la madre come una persona altra che esiste indipendentemente da lui. L’amae rappresenta, nell’accezione negativa, un modo di sottrarsi alla separazione indulgendo nella relazione fusionale e regressiva con la madre (Ricci, 2012) rifiutando la realtà del mondo oggettivo (Sisodia et al. 2007).

I padri più che assenti hanno difficoltà a svolgere la funzione paterna (Piotti, 2014) e a porsi come oggetto terzo in grado di offrire un’esperienza separativa. É grazie al “terzo”, infatti, che è possibile costruire una triangolarità interna fondamentale per potersi separare, per far evolvere il rapporto simbiotico madre-bambino aiutando quest’ultimo a rivolgere il proprio sguardo verso l’esterno e a vivere in una realtà che prevede frustrazioni, rinunce e attese (Priori, 2008). Il padre è colui che è capace di tenere insieme la legge del limite ed il desiderio. La funzione paterna, infatti, non si dissolve nell’esercizio dell’interdizione, perché così non sarebbe possibile la trasmissione del dono del desiderio, ossia il diritto di desiderare un proprio desiderio. Questo rappresenta il senso profondo della funzione paterna umanizzata che introduce non solo la funzione del limite, la regolamentazione del godimento e del non poter avere tutto e subito ma anche la ricerca del desiderio: aiutare il figlio a desiderare una vita propria, un amore, un lavoro, di uscire e conoscere il mondo altro, in sintesi di divenire se stesso. Il padre è depositario di un vuoto, di un non sapere che diventa la forza motrice della trasmissione del desiderio. “Un padre non è colui che sostiene l’illusione che un sapere universale sulla vita possa esistere, ma è colui che risponde a questo buco, a questo vuoto della struttura, con l’atto singolare del proprio desiderio” (Recalcati, 2011). L’altra faccia della funzione paterna, infatti, riguarda l’ accettare e trasmettere al figlio che le zone vuote, di ombra, zone di confine in cui l’indeterminatezza vige possono trasformarsi in risorsa e che è possibile rinunciare all’ideale di perfezione e di successo a tutti i costi (Piotti, 2014). Nella storia dei giovani ritirati, spesso, si riscontra che i limiti e le regole sono stabilite in modo autoritario e rigido, e sono poco rispondenti ai loro bisogni perché imposte e non costruite e negoziate all’interno della relazione. Regole che prevedono un’alternativa netta, un si ed no, e non una terza soluzione risultato di un compromesso relazionale (Piotti, 2014; Suwa, Suzuki, Hara, Watanabe, Takahashi, 2003). Norme trasmesse tacitamente che rendono difficile il confronto, il dialogo, la trasmissione del desiderio. In questo contesto il soggetto fa fatica ad opporsi e a svincolarsi diventando inconsciamente incatenato a tali rigidità, vissute come delle imposizioni piuttosto che come delle regole (Suwa, et al., 2003).

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