Mille modi per farsi male

Fiorenzo Ranieri

Ci sono infiniti modi per cercare il rischio in forma estrema. Si può guidare in modo azzardato, investire in borsa in maniera rapida e temeraria, giocare d’azzardo, rubare o danneggiare la proprietà altrui. La sola gamma degli sport estremi, una delle più diffuse forme di ricerca del rischio (Ferrero Camoletto R., 2005), è così vasta da raccogliere un numero molto ampio di praticanti e richiedere un intero apparato tecnico-professionale a supporto, per produrre attrezzature adeguate, offrire training e formazione necessaria, intervenire in caso di necessità di soccorso e fornire l’opportuna assistenza legale (Santoro, 2008).

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Possiamo far rientrare nell’estreme risk seeking le imprese solitarie di naviganti e scalatori, ma anche le sfide e le gare illegali con autovetture, alcune azioni criminali e perfino certe modalità di assunzione di sostanze stupefacenti. Vi sono poi micro forme di ricerca del rischio, per niente appariscenti, che rimangono piccoli segreti personali a meno che non capiti che qualcuno, ad esempio un clinico, non si soffermi ad indagare su questo o quell’episodio.

Una delle prime indagini sulla ricerca del rischio venne condotta negli anni cinquanta del secolo scorso osservando quanti secondi prima dell’arrivo delle vetture in corsa le persone attraversassero una delle strade più affollate di Manchester (Cohen et al., 1955). In effetti i più innocui oggetti o contesti ambientali possono essere utilizzati in funzione della ricerca del rischio. In questo modo le zebre stradali possono diventare una pista da velocista, il balcone della camera d’albergo un trampolino di lancio per la piscina, una serie di tetti il circuito per evoluzioni ginniche, un vagone del treno o della metropolitana il mezzo per fare surf sui binari. Se l’azione viene imitata può arrivare ad avere codificata con un termine socialmente condiviso: balconing, parkout, trainriding, ecc.

Tra i tanti modi in cui ci si può far male, la ricerca del rischio estremo è uno dei più interessanti. A differenza dei guasti e i danneggiamenti dovuti ai comuni pericoli, peraltro prodotti in numero sempre crescente dallo sviluppo tecnologico e dalla produzione sociale di ricchezza (Beck, 1986), i danni da ricerca del rischio sono dovuti a scelte volontarie che presuppongono processi decisionali, una qualche stima delle capacità possedute e calcoli anche intuitivi delle possibilità di successo. Gli attori delle diverse imprese sono fortemente determinati ad uscire indenni dalle loro azioni, fatto questo che esclude un esplicito desiderio di morire. Infine la ricerca del rischio quasi mai comporta dei vantaggi tangibili per chi la pratica, mentre pare avere la capacità di coinvolgere aspetti intimi della persona con forti riflessi sul senso di identità e sulla conoscenza di se stessi (Le Breton, 2002). Indipendentemente dalle varie forme e manifestazioni che la ricerca del rischio estremo assume, è possibile rintracciare delle caratteristiche comuni. Sebbene i comportamenti osservati siano molto differenti tra di loro, essi condividono i processi psicologici che li generano. La ricerca del rischio estremo si pone ad un crocevia nel quale si intersecano tensioni culturali e sociali, retaggi antropologici, meccanismi psicologici, processi di crescita e maturazione, propensioni individuali in qualche modo geneticamente determinate. Questi comportamenti esasperano e mettono in crisi tutto ciò che stato scritto o proposto a proposito di rischio.

Quando si parla di ricerca del rischio di solito si pensa agli adolescenti. La letteratura a riguardo è enorme, molto più ampia di quella che si occupa di adulti che amano il rischio. Certo molti adolescenti, come rivelano gli studi su campioni normativi, agiscono in modo rischioso (Bonino, 2005; Bonino et al., 2007). I giovani, spinti dal proprio bisogno di autonomia, presi dal desiderio di sperimentare, hanno necessità di ridefinire la propria identità e talvolta trovano nelle condotte rischiose un buon banco di prova (Irwin & Millstein, 1986). Alcuni autori che si occupano di adolescenza parlano di “propensione al rischio fase specifica” e affermano che, pur distinguendo tra propensione al rischio e comportamenti concretamente pericolosi, per gli adolescenti rischiare è una necessità (Carbone, 2009). In una prospettiva evolutiva il rischio può essere definito come “fisiologico”, dato che l’adolescente è costretto a rischiare per capire chi è e chi vorrà essere, per comprendere i suoi limiti e i suoi punti di forza, per modellare in modo personale e restituire agli altri una immagine di sé diversa da quella formatasi all’interno della famiglia di origine (Pellai & Boncinelli, 2002). Proprio la gran frequenza di comportamenti potenzialmente pericolosi da parte degli adolescenti (i così detti “comportamenti a rischio” – Plant & Plant, 1992) rende più difficile in questa fase della vita lo studio della ricerca del rischio estremo come fenomeno autonomo. Intendiamoci, tra gli adolescenti troviamo soggetti appassionati del rischio in quanto tale, e non a caso la letteratura psicanalitica sulla adolescenza ha da tempo differenziato tra azioni di prova (agire per sperimentare) e azioni di fuga dalla consapevolezza, compulsive ed antievolutive (Marcelli & Braconnier, 1999). Tuttavia i “risk seeker” si confondono nella gran massa dei ragazzi che azzardano per bisogno evolutivo, e che ragionevolmente troveranno un loro equilibrio qualche anno più tardi, con una sufficiente avversione al rischio basata, come ci ricorda Braconnier (1993), sulla tendenza a scegliere azioni sicure, a raccogliere maggiori informazioni, a darsi tempo per riflettere prima di agire, a confrontare il proprio punto di vista con quello degli altri.

Anche i bambini cercano il rischio ma gli adulti sembrano non accorgersene. In un bel film del 1966, “Incompreso” di Comencini, il piccolo protagonista del film, terribilmente sofferente per la perdita della madre, inventa “l’azzardometro” utilizzando un grosso ramo curvo proteso sui sassi di un ruscello. Il bambino si aggrappa al suo personalissimo strumento spingendosi ogni volta un po’ più verso l’estremità e segnando così un nuovo limite. L’azzardometro segnala ogni avanzamento con un sinistro scricchiolio e quando il peso sarà divenuto eccessivo si spezzerà. Il padre scopre questa pratica solo a danno fatto, con il bambino ormai prossimo a morire per le lesioni riportate. Il bambino allora confessa che sapeva del pericolo ma che lo aveva cercato volutamente perché gli faceva “passare il nervoso”.

Alcune ricerche epidemiologiche confermano l’ampiezza dei comportamenti di ricerca del rischio da parte di bambini. Un report relativo alla situazione in Gran Bretagna, pur ammettendo che non è possibile ottenere precise informazioni circa i rischi in età infantile, fornisce alcune stime: ogni anno dieci bambini su cento si feriscono da soli a casa (Madge & Baker, 2007). Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità conferma che i comportamenti di risk-taking sono tra le prime cause di morte tra bambini, adolescenti e giovani adulti (Harvey et al., 2009). In particolare, gli incidenti costituiscono la prima causa singola di morte tra i cinque e i quattordici anni. Questi dati hanno portato allo studio dello sviluppo della propensione al rischio nei bambini (Hargreaves & Davies, 1996), le differenze di età e sesso per queste condotte (Slovic, 1966), il ruolo dei fattori cognitivi e delle emozioni (Morrongiello & Matheis, 2004), quali sono le attribuzioni, le credenze e la capacità di valutare il rischio da parte dei bambini (Morrongiello & Rennie, 1998).

L’industria dei media si è impossessata della ricerca del rischio estremo trasformandolo in un oggetto di consumo. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i format mediatici proposti da leader nel settore che glorificano il rischio, come videogiochi che esaltano imprese e sfide ardimentose, film che raccontano di sport estremi, spot pubblicitari che associano il prodotto a condotte e acrobazie rischiose. La conseguenza è un incremento dei comportamenti di ricerca del rischio anche tra gli adulti (Fischer et al, 2011) e il fenomeno è così diffuso da sollecitare riflessioni sociologiche. Per Stephen Lyng la “glorificazione” delle condotte rischiose, viste come antidoto all’alienazione imposta dai ritmi della vita moderna, spinge sempre più adulti alla ricerca volontaria di rischio, praticando esperimenti estremi che richiedono la perfetta esecuzione dell’azione, la capacità di mantenere la situazione sotto controllo, la forza d’animo di resistere alla paura (Lyng, 1990). Per Bauman l’agire estremo non è basato su riflessioni di tipo probabilistico ma un vivere con la contingenza. Non si cercano più rischi calcolabili bensì, attraverso l’azzardo, spazi che accentuino l’imprevedibile e il tutto è possibile, contrapposti agli spazi sociali colonizzati dai sistemi esperti della modernizzazione riflessiva e governati dal calcolo razionale (Bauman, 1991). Ma l’incontro con il rischio può celare una insidia proprio perché genera emozioni forti e piacevoli. Chi affronta il pericolo e sopravvive può trovare l’esperienza così eccitante da essere portato a ritentare, correndo in questo modo un rischio molto maggiore e occulto: il vero pericolo non è l’azione, quanto i sentimenti generati dall’azione. Infatti, se l’esperienza si completa senza danno, le emozioni si accompagnano ad un sentimento di onnipotenza che spinge a ricercare nuove esperienze di rischio nella falsa illusione di una sostanziale invulnerabilità. Chi rischia calcola le probabilità di riuscire o non riuscire, non la capacità di reggere e gestire l’impatto delle emozioni che nascono dall’esperienza (Ranieri, 2006).

Bibliografia

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– Bonino S., Cattelino E., Ciairano S. (2007) Adolescenti e rischio. Comportamenti, funzioni e fattori di protezione. Firenze: Giunti Editore.

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– Morrongiello B. A., Matheis S. (2004). Determinants of children’s risk-taking in different social–situational contexts: The role of cognitions and emotions in predicting children’s decisions. Applied Developmental Psychology 25 (2004), pp 303–326.

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– Ranieri F. (2006): Dipendenze patologiche da rischi estremi. Personalità/Dipendenze. 2006 Dic; Vol. 12 (III).

– Santoro L. (2008). Sport estremi e responsabilità. Milano: Giuffré.

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