Fiorenzo Ranieri
Tutti conosciamo le emozioni che si provano quando siamo osservati e sappiamo che lo sguardo dell’altro può dare origine a sensazioni sia piacevoli che sgradevoli. Si può essere orgogliosi, contenti di essere ammirati, gratificati dalla soddisfazione di impulsi esibizionistici, ma si possono anche provare sensazioni sgradevoli di imbarazzo, vergogna e umiliazione (Steiner, 2011). L’adolescente proprio per il potere che avverte nello sguardo altrui può riempire a sua volta il suo sguardo di significati multipli, sfaccettati, rappresentativi.
È bene, accettando lo sguardo di un adolescente, tenere a mente l’aforisma di Friedrich Nietzsche (1886): “E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”.Quando Steve McCurry, uno dei più importanti fotografi contemporanei, si incontra con lo sguardo di una ragazzina di dodici anni in un campo profughi in Pakistan è il 1984. L’esercito sovietico ha invaso l’Afghanistan, intere famiglie sono state trascinate via dalla furia della guerra e milioni di persone si sono rifugiate nei paesi confinanti. Il racconto di McCurry è quello di una relazione breve ma estremamente intensa, di uno spazio condiviso, di uno sguardo accolto e contenuto. La giovanissima profuga trasmette il dramma e le emozioni che si vivono quando le aspettative legittime sul presente e sul futuro di chi cresce vengono disattese dal mondo degli adulti. La fotografia nata da questo incontro è diventata una delle più celebri del secolo scorso ed è nota come “la ragazza afghana” suscitando infiniti dibattiti, punti di vista, opinioni. Al di là delle interpretazioni individuali forse è utile ascoltare il racconto di come McCurry abbia reso possibile allo sguardo di una dodicenne di esprimersi e di essere accolto.
D’un tratto sentii un breve grido argentino, da dentro una grande tenda, lo ricordo ben chiaro nella memoria. Entrai dallo stretto passaggio d’ingresso, l’interno era piu scuro, penetrava meno luce. Mi pareva di vedere intorno delle mappe geografiche del mondo, riprodotte in poveri colori, con al centro L’Afghanistan. Mi guardai attorno, sembrava una scuola, non nel senso di un’aula scolastica come quelle delle nostre città. I talebani avevano represso con durezza l’istruzione femminile, c’erano stati attacchi alle scuole delle bambine, anche con vittime, dunque in un’aula scolastica di studentesse c’era un’aria particolare, guardinga, attenta, protetta. Per sicurezza, tante mamme imponevano alle figlie di coprirsi, tempi difficili, e le bambine obbedivano e non osavano uscire senza velo. A darmi l’ok a entrare fu una donna che avevo conosciuto: «Vada», mi disse. Conoscevo bene le regole e la tradizione, mi avvicinai all’insegnante, la salutai, feci i convenevoli di cortesia e poi le chiesi il permesso, se fosse possibile per me fotografare le ragazze. Era un autunno terribile, i profughi sentivano che il loro dramma non era rappresentato ancora a tutti, o magari s’illudevano che se l’opinione pubblica avesse preso atto del loro soffrire avrebbe messo un alt alle persecuzioni e alla guerra. Si sbagliavano purtroppo ma, forse motivata da questa speranza, la professoressa mi disse che potevo lavorare nella sua aula improvvisata sotto la tenda. La ragazza dagli occhi verdi e il velo, col mantello color ruggine la vidi immediatamente. Molto dopo appresi che si vergognava di quel velo perché cucinando per la famiglia, sulla viva fiamma s’era bruciacchiato e sporcato, ma era l’unico che possedesse e doveva indossarlo malgrado questo la imbarazzasse davanti alle compagne meno povere. Non tutte erano a viso coperto e la maestra sembrò rilassata, spesso era impossibile riprendere le donne senza suscitare proteste, minacce. Le ragazze, come le teenager ovunque, erano divertite, emozionate, rese giocose dalla mia presenza che le distraeva per un momento dalla loro difficile routine. Molte di loro non avevano avuto che rari contatti, o nessuno, con gli stranieri, la macchina fotografica le emozionava, la tecnologia non era loro venuta a noia, come ai nostri ragazzi, erano affascinate. L’istinto mi suggerì di non chiedere subito alla ragazza dagli occhi verdi di farsi riprendere, l’avrei magari messa a disagio, al centro dell’attenzione e le sue movenze invece erano timide, caute, non era mai stata fotografata prima nella sua vita, era solo incuriosita. Così feci il ritratto a due compagne, che sembravano un po’ più spigliate delle altre e l’aria si distese, le studentesse si avvicinarono a me, ridendo e chiacchierando tra di loro, erano tra dieci e quindici di numero, certo meno di venti, si comportavano in modo fanciullesco, si rincorrevano e poiché il terreno era malamente battuto, alzavano polvere che rendeva opaca la luce già fioca. Non avevo ancora scattato e già sapevo che sarebbe stata un’immagine forte, importante. Non per me, per lei. La guardavo e non sentivo più il chiasso della scolaresca, i richiami dell’insegnante i rumori sordi del campo. Davanti all’obbiettivo fu dapprima riluttante, schiva, sembrava quasi decisa a dirmi di no, ma intervenne l’insegnante, con poche parole la convinse. Restò allora calma, non voleva comportarsi diversamente dalle compagne, ma era diversa. Era una ragazza semplice una profuga tra milioni, ma aveva lo sguardo fermo, magnifico fissato verso di me, che sembrava pero andare oltre la tenda, il campo, l’obiettivo. In un attimo si concentrò verso la macchina fotografica, sentivo solo silenzio, la luce si fece perfetta, ogni elemento di quell’immagine, il suo velo rovinato, lo sfondo, si allineò alla perfezione. Il suo sguardo ha molti effetti, infinite nuance, la sua espressione è così colma di contraddizioni, di ombre, che impressiona. Non sorride a ben guardare, ma ha un lampo di curiosità, subito temperato dalla preoccupazione, dal bisogno. Non smette di incantare chi guarda, è – non dimentichiamolo – bellissima di una bellezza struggente che attrae e chiede protezione, pur emanando indipendenza, orgoglio. H a le mani sporche, il volto impolverato ma emana una bellezza che nessuna delle immagini patinate delle top model riesce ad avvicinare. Ecco, è forse l’autenticità della bellezza a colpire, ancora prima degli occhi profondi [..]. Solo molto tempo dopo quella foto al campo di Nasir Bagh, seppi che lei aveva appena dodici anni. Ho ricostruito quella scena in tante interviste, televisioni, giornali, libri, da quell’immagine è scaturito un lungo dibattito, sulla .fotografia, la politica, la guerra, la compassione, la cultura in Oriente e in Occidente. In realtà il nostro incontro fu assai breve, effimero, pochi istanti, senza formalità. Uno sguardo, le foto, ne scattai una quindicina, usando il treppiede e una Nikon 35 mm, lei era ancora insicura, non sapeva che cosa stesse accadendo, non disse nulla e subito si levò, allontanandosi. Per oltre due mesi non potei vedere la sua immagine, ero sempre in viaggio, quasi me ne dimenticai.
Bibliografia
- McCurry S. & Riotta G. (2016). Il mondo di Steve McCurry. Milano: Mondadori.
- Nietzsche, F. (1886). 1966. Beyond good and evil.
- Steiner J. (2011). L’angoscia di essere visti: orgoglio narcisistico e umiliazione narcisistica. http://www.centropsicoanalisiromano.it/archivio-lavori-scientifici/archivio-storico-dal-2001-a-oggi/160-qlangoscia-di-essere-visti-orgoglio-narcisistico-e-umiliazione-narcisisticaq.html