Robinù

Fiorenzo Ranieri –

“A quindici anni imparano a sparare. A vent’anni sono dei killer. A trenta non ci arrivano”. Ecco come Michele Santoro, il regista, presenta i protagonisti di Robinù, docu-film sulla “paranza dei bambini” a Napoli.

Nel recentissimo seminario “Radicalismi in adolescenza”, dove il tema centrale era la seduzione jihadista per i giovanissimi, Francesco Cascini ha paragonato la conversione all’ISIS degli adolescenti francesi alla affiliazione dei ragazzini napoletani, siciliani e calabresi ai clan del territorio. Lavorare con giovani esposti alla mafia non è così diverso dal farsi carico dei giovani delle banlieue francesi. In entrambi i casi assistiamo alla disumanizzazione di ragazzi intrappolati in una crisi che è un impasse della propria traiettoria di sviluppo e di vita.Santoro ha raccontato in una intervista al Corriere della Sera: “Quando studio le storie di quei ragazzi, mi identifico nelle mie vicende familiari. Io ho avuto in mio padre un esempio straordinario, col suo stipendio da macchinista delle ferrovie ha portato cinque figli fino agli studi universitari. Ma da bambino a Salerno sono cresciuto per strada: c’era una forte dinamica di bande che si affrontavano nelle vie, avrei potuto precipitare anch’io chissà dove, le occasioni negative c’erano. E così, da ragazzo, molte persone che ho conosciuto, magari per emulazione, sono finite nella lotta armata e hanno ammazzato. Per questo penso che certi mondi vadano contagiati positivamente: e tocca a noi. Mai rinchiuderli in un ghetto, così si perpetua tutto”.

In realtà la reazione del mondo adulto oscilla tra repressione-isolamento, posizione che tende a prevalere, e prevenzione-recupero-sostegno, posizione faticosa, difficile, povera di risorse. Di seguito riporto una ampia sintesi della recensione di Robinù scritta da Andrea Pomella per la rivista Napoli Monitor.

“Con un’apertura sul golfo di Napoli e una colonna sonora perennemente drammatica, la pellicola prende le mosse dalle storie di alcune famiglie coinvolte nella guerra tra gli eredi del clan Giugliano e il clan Sibillo per il controllo del centro storico. Il regista cerca di mostrare lo spaccato di un mondo sconosciuto a una certa parte dell’Italia. Si inizia da non-luoghi che lo spettatore “straniero” con difficoltà riesce a collocare geograficamente: il carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento, il carcere di Poggioreale, le strade del centro storico. Per chi non conosce la realtà napoletana, ma anche per chi è del posto, le storie narrate appaiono poco connesse tra di loro: la famiglia di parcheggiatori abusivi con quattro figli, tre detenuti e uno emigrato a Parigi; la madre per bene che ha perso il figlio perché deciso a intraprendere la strada dell’illegalità; ragazzini tra i quindici e i diciotto anni cresciuti con il mito delle armi e della violenza; donne di casa che per mantenere mariti (in carcere) e prole si inseriscono nel circuito dello spaccio di coca. Non esiste un filo conduttore che unisca queste trame, che indaghi “la continuità urbanistica tra vicolo e carcere”, che contraddistingue la vita di questi ragazzi e non solo. (..) Santoro procede a un’oggettivazione di queste esperienze senza riuscire a ricondurle in un preciso contesto culturale, sociale ed economico. Non riesce a emergere la volontà di questi baby-boss di colmare un vuoto lasciato prima dalla Nuova Camorra Organizzata e poi dal Sistema post-guerra scissionista a Secondigliano; non emerge la crisi che, così come tutte le economie internazionali, ha investito anche quella extra-legale del crimine organizzato, riducendo al minimo la redistribuzione del welfare dei clan; non emerge che con tutti i capi storici in galera, in una tomba o pentiti, solo figure giovanissime potevano guerreggiare per l’ottenimento del potere. Senza questi e altri elementi, viene tutto ridotto a tragedie familiari e mitizzazione delle armi: la complessità sociale di questi giovani, che con sedici anni di pena da espiare usciranno di cella a quaranta, viene sintetizzata dall’idea che possedere ’o Kalash’(nikov) è come tenere Belèn tra le braccia.

Maggiore risalto viene dato a uno dei figli della famiglia di parcheggiatori, Michele, ventidue anni, detenuto a Poggioreale, che con la determinazione di essere autonomo, di “non stare sotto a nessuno”, non si affilia, conduce i propri affari, è riconosciuto come benefattore dalla gente del quartiere. È lui Robinù, così come viene definito dal padre. Biondo, occhi chiari e lucidi, pupille dilatate, evidentemente distrutto dalla permanenza in carcere e dalla mancanza di futuro: cosa fare dopo essere entrati in galera ragazzini ed esserne usciti adulti? Che prospettive ha un giovane come Taieb, detenuto ad Airola, figlio di una prostituta immigrata e portato via dal padre napoletano che ha condotto anch’egli una vita di extra-legalità? Che dire di madri che vendono droga perché non trovano altre “opportunità di lavoro”? (..) Per il giornalista, dunque, una parte della popolazione extra-legale napoletana è priva di “colpa”, quasi come fosse incapace di intendere e volere, come animali da soma che non possono capire le ragioni dello sfruttamento a cui sono sottoposti. Chi, per Santoro, si libera da questa condizione è il fratello di Michele, emigrato in Francia per “vivere di lavoro”. È la sua figura che ci pone di fronte alla condizione razzializzata che i napoletani vivono in territorio nazionale e straniero. Come non rimanere colpiti dalla scena in cui il pizzaiolo mostra la sua prima “casa” una volta arrivato a Parigi: un cassonetto della spazzatura condiviso con un altro senzatetto maghrebino, il suo primo amico. Eppure, verrebbe da pensare, non sono bianchi i napoletani? Non fanno parte dell’Occidente modernizzato? A modo loro, sì. Il desiderio di potere e soldi, nutrito dai ragazzini della “paranza” e non solo, non è, in fondo, la versione illegale del “sogno neoliberale” di cui siamo stati nutriti fin da quando ne abbiamo memoria?

(..) A guardare il film con me, seduti nelle altre file della sala, c’erano famiglie e giovani dei quartieri popolari di Napoli, desiderosi di vedersi “rappresentati”, di sentire che si parli di loro e delle loro vite, sempre ben disposti verso qualcuno che gli dia voce, a loro che voce non ne hanno.

Pomella A. (2016) Robinù e la paranza dei bambini. Sul docufilm di Michele Santoro. Napoli MONiTOR: http://napolimonitor.it/robinu-la-paranza-dei-bambini-sul-docufilm-michele-santoro/

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