Fiorenzo Ranieri –
In un recente articolo Matthew H. Bowker (2016) avanza una interessante ipotesi circa il rapporto tra hikikomori e l’amae, il termine con cui in Giappone viene descritto l’amore particolarmente indulgente della madre per il proprio bambino. Il titolo dell’articolo grossolanamente tradotto è “Hikikomori come desiderio deturpato: indulgenza, mistificazione e vittimizzazione nel fenomeno dell’isolamento sociale estremo in Giappone”. Browker fa presente che fino a questo momento le relazioni amae tra madre e bambino sono state ritenute una delle cause dell’hikikomori (si veda a tal proposito l’articolo di Bellagamba su questo sito). L’autore invece avanza l’ipotesi che l’hikikomori sia da attribuire piuttosto alla l’assenza o perdita di indulgenza emotiva tra madre e bambino, fatto questo che porta alla fine l’individuo alla vergogna, alla confusione, alla auto-incarcerazione e anche alla vittimizzazione della propria famiglia.
Ma cosa è l’amae, e perché sarebbe così importante per lo sviluppo del bambino?Il termine giapponese amae, e il verbo amaeru, sono abbastanza vicino all’inglese “indulgence” (in italiano indulgenza, ma anche appagamento) e alle forme verbali “to indulge oneself” e “to presume indulgence“. Il termine ha una gamma abbastanza complessa di significati, poiché, ad esempio, si può indulgere o essere accondiscendenti con se stessi, con le proprie spinte istintuali, si può essere indulgenti con un’altra persona, e si può accondiscendere alla indulgenza offerta da un altro. In tutti i casi, indulgere comporta il cedere o l’aderire ai propri desideri o ai desideri o le richieste di un altro.
In Giappone, ma in realtà anche in molte altre culture, si prevede che un neonato o un bambino sarà amaeru ai suoi genitori, che sarà appagato dalla loro indulgenza per lui. In altre parole il bambino si aspetta di potersi permettere di diventare dipendente dai genitori, di ottenere un qualche adeguamento alle sue esigenze e ai suoi desideri, e godere di questa esperienza, in un primo momento inconsapevolmente, ma col trascorrere del tempo coerente con il riconoscimento del suo stato. In genere ci si può aspettare che i genitori del bambino non rifiutino o rigettino le sue richieste di dipendenza, e che un “buon appagamento” venga offerto al bambino. E i genitori, naturalmente, diventeranno “dipendenti dalla dipendenza” del bambino, ovvero che concederanno a se stessi di essere indulgenti verso le richieste di appagamento del loro figlio.
Il concetto di amae è conosciuto in occidente grazie agli ormai classici lavori dello psicoanalista giapponese Takeo Doi (1973; 1986). Doi ha inserito di diritto il costrutto di amae tra i concetti psicoanalitici, rendendolo disponibile per la comprensione di una vasta gamma di fenomeni psico – sociali anche al di fuori della realtà giapponese. Anche da adulti, sostiene Doi, con i propri congiunti più vicini è possibile accondiscendere, essere autoindulgenti, dato che ciascuno può permettersi di dipendere dall’indulgenza dei membri della famiglia. In una famiglia ben funzionante non c’è bisogno di trattenersi o seguire regole formali di cortesia così come può accadere in contesti sociali meno intimi. Non ci si deve preoccupare eccessivamente se ci si impone agli altri, né scusarsi per le proprie inevitabili ingiunzioni. Nella famiglia giapponese ideale ognuno vive in uno stato di rassicurante (inter) dipendenza: ogni membro della famiglia è rassicurato dalla consapevolezza che le proprie richieste saranno soddisfatte e, cosa più importante, dalla consapevolezza che il desiderio di indulgenza non riceverà un rifiuto o la perdita della disponibilità dei propri cari.
Quando si parla di amae è importante non associare indulgenza e dipendenza a semplici bisogni materiali, ma alle esigenze emotive che compongono le relazioni primarie del bambino. Il concetto di amae descrive non solo l’orientamento del bambino verso le figure primarie di attaccamento ma la rete di correlazione in cui si verificano indulgenza e dipendenza. L’idea di amae, quindi, è più robusta di quello che i teorici dell’attaccamento descrivono come “base sicura” (Bowlby, 1988), e si accorda con quello che Winnicott (1965) ha definito un ambiente di “holding” adatto ai bisogni del bambino e in grado di far sviluppare creatività e autonomia attraverso esperienze primarie soddisfacenti di facilitazione e dipendenza.
Un ambiente primario in cui si sperimenta amae, per Browker, non rappresenta una causa di futuro ritiro sociale, ma anzi il fondamento di una crescita sana, un formidabile fattore di protezione: il bambino a cui è stato concesso un ambiente indulgente diventerà un ragazzo con meno probabilità di rifiuto scolastico o del lavoro, a differenza del piccolo che ha sperimentato una frustrazione di amae.
Si tratta di una posizione radicalmente diversa da quella assunta da diversi autori che nella pratica ha portato a interventi riabilitativi basati sulla ipotesi che l’hikikomori può essere curato solo con un amore severo e scacciandolo dal suo “nido” (Hairston, 2010), fino alle conseguenze estreme descritte da Furlong (2008), con campi di “recupero” in cui giovani hikikomori sono stati maltrattati, torturati, spinti al suicidio.
In realtà, secondo Bowker, la stessa scelta di rinchiudersi può essere letta come una inconsapevole richiesta di poter vivere la condizione amae negata nei primi mesi e anni di vita da un ambiente primario non indulgente ma freddo e centrato sui bisogni concreti più che sui bisogni affettivi. L’adolescente o il giovane hikikomori sperimenta il suo desiderio di amaeru come infantile, vergognoso, o mostruoso. Sebbene consapevolmente cerchi di quanto più possibile allontanarsi da una condizione di appagamento, la sua silenziosa auto – carcerazione può essere intesa come un disperato tentativo di entrare in un “bozzolo” protettivo dal quale egli potrebbe un giorno non emergere come un “insetto deturpato pieno di desideri mostruosi” ma come una persona degna di indulgenza, amore e cura.
Si costruisce così una condizione paradossale in cui il bisogno di condivisione e accettazione si tramuta in un estremo isolamento e impossibilità di accedere ad ogni forma di contatto umano.
I giovani hikikomori: che hanno sofferto per una grave deprivazione primaria non cercano ribellione né distruzione, ma il ritorno a una condizione di vita che consenta di accedere alla creatività, alla connessione con i propri desideri (soprattutto quelli infantili) e, per mancanza di un termine migliore, a “una indulgente esperienza di sé”. Nonostante tali speranze, l’individuo in hikikomori riattualizza compulsivamente la propria privazione, orientando il suo comportamento verso un obiettivo regressivo: la speranza di condividere la deprivazione con gli altri membri della famiglia affliggendo loro la sua sofferenza. Quindi, in una condizione hikikomori vanno tenute presenti, insieme alle loro speranze, le componenti aggressive dei giovani rinchiusi. Lo stato di auto-incarcerazione e di auto-privazione dell’hikikomori tacitamente nega ai membri della famiglia la libertà e l’autonomia di cui dovrebbero godere tutti gli individui autonomi. Ma sarebbe un errore immaginare che lo stato di hikikomori forzi i membri della famiglia a tornare ad una relazione simile all’amae. I membri della famiglia si prendono cura del giovane hikikomori, ma è loro impedito di interagire emotivamente con lui. Essi sono relegati esclusivamente a fornire all’individuo pasti, vestiti, rifugio e altre necessità di base. I membri della famiglia spesso compiono enormi sacrifici nella propria vita per prendersi cura dei membri della famiglia in ritiro sociale estremo. Il rifiuto da parte dell’hikikomori di aiutare la famiglia a capire la situazione lascia i congiunti nella incertezza se il comportamento hikikomori sia una punizione per qualche loro misfatto o se questi comportamenti porteranno ad ulteriori malattie fisiche o mentali, a violenza intra-familiare, al suicidio. Va aggiunto poi che i genitori e i membri della famiglia degli hikikomori sono frequentemente sottoposti a stigma sociale e spesso riportano sentimenti di colpa e vergogna riguardo al ragazzo in ritiro. Negando la comunicazione, costringendo i familiari a rimanere a casa, abbandonando gli altri alla loro vergogna, alla preoccupazione e alla paura, l’hikikomori rende delle vittime i suoi care-giver mentre allo stesso tempo occupa la posizione di una vittima. In questo modo l’hikikomori chiuso nella sua stanza riesce a privare gli altri del benessere psicologico, della autostima, della partecipazione alle attività normali e alle relazioni sociali. In pratica i membri della famiglia vengono privati delle capacità di appagare o di godere dell’appagamento da parte di altri. L’hikikomori rende gli altri responsabili della sua sopravvivenza e implicitamente del suo stato.
Si potrebbe, in ultima analisi ritenere che un obiettivo inconsapevole del giovane hikikomori sia quello di trasmettere ai membri della famiglia e agli altri la sua stessa perdita, vergogna, rabbia e paura. Così facendo l’hikikomori si potrebbe permettere di sperimentare la propria deprivazione e sperimentare, forse per la prima volta, la sua confusione e rabbia identificandosi proiettivamente con la sofferenza della famiglia.
Il fatto che i giovani hikikomori rimangano chiusi nelle loro stanze e sembrano rifiutare, per anni e a volte anche per decenni qualunque gesto di comprensione da parte dei familiari e degli operatori sociali, implica che il problema è nella tragica ripetizione di un fallimento precoce nella relazione tra figlio e genitore. Questo fallimento iniziale rende l’hikikomori non più in grado di accettare il proprio desiderio, e allo stesso tempo non in grado di abbandonarlo. La resistenza dell’hikikomori ad accettare amae è, come suggerito in precedenza, relativo alla vergogna estrema sentita da tali adolescenti e giovani adulti: essi vivono il loro desiderio deturpato come vergognoso e mostruoso, un vissuto che rende ancora più profondo la loro sensazione di essere indegni. L’incapacità di abbandonare il desiderio di amae genera irresistibili sensazioni di rabbia e di risentimento per quando è andato perduto in un passato ormai lontano.
Concludendo Bowker cerca di mostrare nel suo lavoro che il desiderio di amae viene mistificato dall’hikikomori. Il ragazzo in ritiro maschera il suo desiderio di amae con la privazione di ogni contatto affettivo in una infinita ripetizione della sua deprivazione e della sua vergogna e solitudine. Inoltre, mentre in passato il giovane era stato un bambino vittima, ora con il suo comportamento vittimizza coloro che sperano di amarlo con indulgenza costringendoli a badare solo ai suoi bisogni fondamentali e infliggendo loro restrizioni personali quali sentimenti di paura, di colpa, di rabbia e di confusione. Questa costellazione delle emozioni implica, per inciso che le opzioni di trattamento dovrebbero caratterizzarsi come “periodi di indulgenza”, con modalità simili a quelle descritte da Winnicott (1986) quando si occupava di ragazzini dal comportamento antisociale.
Bibliografia
Bowlby, J. (1988). A Secure Base: Parent-Child Attachment and Healthy Human Development. New York: Basic Books [Tr. It.: Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Milano: Raffaello Cortina, (1989)].
Bowker M. H. (2016). Hikikomori as Disfigured Desire: Indulgence, Mystification, and Victimization in the Phenomenon of Extreme Social Isolation in Japan. Journal of Psycho-Social Studies. Volume 9, Issue 1, May 2016. http://www2.uwe.ac.uk/services/Marketing/research/pdf/Journal%20for%20Psychosocial%20Studies/Matthew-Bowker-Hikikomori-as-Disfugured-Desire.pdf
Doi, T. (1973). The Anatomy of Dependence. Tokyo: Kodansha International. [Tr. It.: Anatomia della dipendenza. Milano: Raffaello Cortina Editor (1991)].
Doi, T. (1986). The Anatomy of the Self: The Individual Versus Society. Tokyo: Kodansha International.
Furlong, A. (2008). The Japanese Hikikomori Phenomenon: Acute Social Withdrawal Among Young People. The Sociological Review. 56: 309-325.
Hairston, M. (2010). A Cocoon with a View: Hikikomori, Otaku, and Welcome to the NHK. Mechademia 5: 311-323.
Winnicott, D.W. (1965). The Maturational Process and the Facilitating Environment: Studies in the Theory of Emotional Development. London: Hogarth and the Institute of Psycho-Analysis [Tr. It. (1974): Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Roma: Armando].
Winnicott, D.W. (1986). Delinquency as a sign of hope. In Home is where we start from. London: Penguin [Tr. it.: (1990) La delinquenza come segno di speranza. In Dal luogo delle origini. Milano: Cortina)].