Hikikomori, dibattito su un fenomeno del XXI° secolo

Fiorenzo Ranieri –

In questo articolo presenterò alcune riflessioni su un fenomeno che da diversi anni a questa parte si sta diffondendo tra gli adolescenti e i giovani adulti in molti paesi, al punto da far pensare ad una questione che vada al di là di una singolo specifico contesto culturale (Li & Wong, 2015). Si tratta di una forma particolare di ritiro sociale osservato per la prima volta in Giappone e descritto in modo esaustivo dallo psichiatra Saitō (1998) che lo ha chiamato “hikikomori”. Gli adolescenti hikikomori sono spinti a rinchiudersi da qualcosa di diverso da un disagio mentale conclamato, come la schizofrenia o un disturbo dello spettro autistico, la disabilità intellettiva o i classici sintomi di uno stato depressivo.Il Ministero della Salute del Giappone, chiamato a indagare per l’alto numero di casi comparsi in quel paese fin dagli anni novanta, ha condotto due ampie indagini nel 2003 e nel 2010 e ha stilato delle linee guida in cui si afferma che “la condizione di hikikomori non può essere considerata una sindrome ma un fenomeno psico – sociale”. I criteri per l’individuazione di un hikikomori indicati dal Ministero giapponese sono i seguenti: questa condizione riguarda bambini, adolescenti e giovani adulti al di sotto dei trenta anni; lo stile di vita è centrato sulla propria casa; il ritiro più o meno completo dalla società si protrae per almeno sei mesi; è presente un rifiuto scolastico e/o lavorativo; coloro che lasciano la scuola o il lavoro ma continuano a mantenere relazioni extra-familiari con i coetanei non sono considerati hikikomori; tra gli hikikomori possono esservi futuri pazienti schizofrenici che vengono inclusi in questo raggruppamento fino a quando la malattia mentale non diventa evidente (Ministry of Health, Labor and Welfare of Japan, 2003 e 2010) [La estensione del fenomeno hikikomori in Giappone non è mai stata definita con precisione. Alcuni dati epidemiologici riferiscono di circa 410.000 casi (Furlong, 2008); stime indirette ipotizzano 600.000 casi di età compresa tra i 20 e i 40 anni (Suwa & Suzuki, 2013) e oltre il milione di soggetti se si considera anche la fascia adolescenziale (Borovoy, 2008)].

Nel corso degli ultimi venti anni sono state formulate opinioni diverse sulla origine del fenomeno hikikomori. Alcuni autori confermano che questa forma di ritiro ha un carattere esclusivamente psicosociale. “Hikikomori non è l’etichetta di un disagio mentale, ma semplicemente un termine per definire una condizione” (Saito, 2002), “uno stato non causato da qualche malattia mentale” (Ogino, 2004), “non un sintomo che accompagna un disturbo mentale” (Isobe, 2004). In accordo con queste posizioni gli studi sociologici e antropologici sottolineano come il comportamento in questi giovani possa essere interpretato come un modo per sottrarsi alle pressioni della società, della scuola, dei genitori (Krysinska, 2007; Todd, 2011) o alle difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro dovuto ai cambiamenti economici che penalizzano le nuove generazioni (Furlong, 2008). Il comportamento dell’hikikomori sarebbe una azione di ritiro dalle costrizioni di spazio e tempo socialmente condivise per una sorta di reazione alle pressioni dei ritmi e delle performance da raggiungere (Kaneko, 2006), una forma di silenziosa protesta (Meligrana, 2013) verso una società, una scuola, una famiglia che, anche a costo di nascondere le dimensioni psicologiche sottostanti al ritiro sociale, privilegiano la tradizionale coesione tra i membri della comunità piuttosto che il diritto di essere differenti (Borovoy, 2008). Gli hikikomori costituirebbero una sorta di sottocultura giovanile nascosta che affronta con il ritiro e la rinuncia al proprio status sociale i problemi posti dalla società tradizionale come esclusione, bullismo, discriminazione (Chan & Lo, 2014a).

Allontanandosi dalle opinioni descritte nel paragrafo precedente, numerosi autori considerano la condizione hikikomori una sindrome psicopatologia. Alcuni psichiatri riconducono la condizione hikikomori a categorie diagnostiche già esistenti (Kondo et al., 2013), per altri la condizione hikikomori è una forma di depressione moderna (Kato et al., 2016), per altri ancora, dato che non è sempre possibile classificare la condizione hikikomori come un disordine psichiatrico già incluso nel DSM o nell’ICD, occorrerebbe valutare se è opportuno inserire questa condizione in una cultural bound syndrome o definirla come una nuova forma di disordine psichiatrico (Teo & Gaw, 2010). La valutazione psichiatrica di adolescenti e giovani in una condizione hikikomori è resa più complessa dal fatto che l’autoreclusione, anche se volontaria, può determinare di per sé lo sviluppo di sintomi psicopatologici che vanno dalla insonnia alla inversione del ciclo veglia – sonno, dagli stati ansiosi ai disturbi ossessivo – compulsivi, dalla regressione a comportamenti infantili alla violenza domestica (Saitō, 1998), rendendo molto complesso una qualunque indagine mirante a definire dei criteri diagnostici univoci.

Molti autori differenziano tra due tipi di hikikomori, quello primario, in cui lo stato di hikikomori non va considerato come un disordine mentale ma piuttosto come una condizione che implica problemi di comportamento, e quello secondario, caratterizzato da un disturbo pervasivo dello sviluppo (Suwa et al., 2003; Suwa & Suzuki, 2013). La suddivisione degli hikikomori in due gruppi, primario e secondario, ha trovato una conferma in uno studio epidemiologico sulla relazione tra hikikomori e disturbi psichiatrici condotto all’interno di una iniziativa del World Mental Health Survey Initiative (WMH-J) [Il WMH-J è un progetto di indagine epidemiologica condotto in Giappone tra il 2002 e il 2006 promosso dal WMH Survey Initiative per indagare sui disordini mentali, uso di sostanze psicoattive e disturbi comportamentali (Kawakami et al., 2005)]. L’indagine ha rilevato che circa metà del campione di hikikomori intervistato aveva manifestato il ritiro sociale in comorbidità con un disturbo psichiatrico (disturbi dell’umore, ansia, disturbi del controllo degli impulsi, disturbi correlati all’uso di sostanze) mentre l’altra metà del campione non mostrava alcuna comorbidità (Koyama et al., 2010). Il concetto di hikikomori primario è stato criticato e definito un paradosso, una categoria psichiatrica nata per riconoscere chi non appartiene al campo psichiatrico (Tajan, 2015). Tuttavia raggruppare una parte dei casi di ritiro sociale nella categoria degli hikikomori primari ha consentito di uscire dalle strettoie di una rigida classificazione psichiatrica, dando la possibilità di porre maggior attenzione agli aspetti relazionali, evolutivi e psicologici che caratterizzano il percorso di vita di questi adolescenti (Teo et al, 2014).

In una indagine condotta ad Hong Kong, dove i giovani hikikomori sono chiamati “gioventù nascosta”, i ricercatori hanno suddiviso in cinque livelli il grado di ritiro sociale e hanno dimostrato che la qualità della vita decresce con l’aumentare del ritiro (Chan & Lo, 2014b). Questo lavoro è interessante non solo per le ipotesi di ricerca verificate, ma anche perché offre una prospettiva più elastica al fenomeno hikikomori, visto come una condizione che può manifestarsi in forme diverse a seconda del momento evolutivo e delle caratteristiche del contesto di riferimento. Se si abbraccia il punto di vista che la condizione hikikomori trascende il contesto culturale pur essendone influenzata (Sakamoto et al, 2005), si può affermare che questo tipo di ritiro sociale acuto si presenta come un crocevia tra aspetti biologici, evolutivi, relazionali, antropologici e socio – culturali. Diventa allora fondamentale delineare le circostanze che nel corso della vita pongono alcuni adolescenti “sulla strada del ritiro” (Ranieri et al., 2015).

Tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo di una condizione hikikomori troviamo una predisposizione temperamentale al ritiro, una alterata relazione precoce madre – bambino condizionata a volte da fattori culturali, uno stile di attaccamento insicuro – ambivalente, relazioni familiari che vedono da un lato una madre iperprotettiva ed estremamente legata al proprio bambino, dall’altro un padre sostanzialmente assente. Il bambino potenzialmente a rischio di una evoluzione verso il ritiro sociale spesso è un figlio depositario delle idealizzazioni e delle notevoli aspettative della madre, con l’obbligo di emulare il padre lontano ma anche di sostituirlo nella relazione con la madre (Loscalzo et al., 2016). Quando nel corso dell’infanzia si è conformata questa costellazione relazionale, è sufficiente un evento scatenante durante la prima adolescenza (episodi di bullismo ma anche la mancanza di integrazione nel gruppo dei pari o semplici richieste da parte della scuola vissute come eccessive) per spingere l’adolescente a forme di ritiro che possono essere più o meno accentuate, più o meno ostinate a seconda della organizzazione interna che si è sviluppata nel corso della crescita (Ranieri, 2015). Il ritiro sociale si declina lungo un continuum che parte da una generica predisposizione allo stare da solo e arriva fino alla condizione del ritiro sociale estremo (Asendorpf, 1990).

In una ricerca sui fattori psicosociali che orientano al ritiro nel corso della crescita, Krieg e Dickie (2013) hanno rilevato che gli hikikomori del campione mostravano un temperamento timido e uno stile di attaccamento ambivalente a differenza dei soggetti del gruppo di controllo. Questi giovani riferirono che quando erano piccoli in molte occasioni i propri genitori avevano usato come minaccia la possibilità di interrompere ogni rapporto con loro [Una pratica educativa chiamata “mushi” utilizzata da alcuni genitori giapponesi consiste nel minacciare il proprio bambino di abbandono affettivo, ad esempio evitando di rivolgere parola al piccolo o prospettando la possibilità di lasciarlo fuori di casa (Hattori, 2003)]e che durante la prima adolescenza ma non durante le scuole elementari erano stati oggetto di atteggiamenti di rifiuto e bullismo da parte di coetanei. Secondo gli autori il temperamento timido non è predittivo di una condizione hikikomori. Solo un percorso particolarmente negativo, con relazioni genitore/bambino non accoglienti, lo sviluppo di uno attaccamento ansioso-evitante ed episodi di rifiuto e bullismo durante la prima adolescenza possono portare ad un ritiro sociale estremo.

Per Hattori (2005) all’origine della condizione hikikomori vi sono condizioni traumatiche vissute durante l’infanzia. In una ricerca condotta da questo autore nessuno dei trentacinque giovani hikikomori partecipanti allo studio mostrava uno stile di attaccamento sicuro e tutti riferivano di esperienze negative e di rifiuto da parte dei genitori. Secondo Hattori gli hikikomori per adattarsi a genitori emotivamente disfunzionali avevano represso le emozioni e la propria personalità originale creando una falsa identità.

Anche Suwa e Suzuki (2013) si soffermano sulla costruzione della falsa identità nella storia degli adolescenti hikikomori. Le cinque principali caratteristiche utili per individuare gli hikikomori primari sono aspetti e conseguenze del processo di costruzione di una falsa identità: un forte investimento dei genitori nel sé ideale del bambino; una immagine del sé ideale originato dai desideri di altri piuttosto che dai propri; la necessità o il bisogno di preservare l’immagine del sé previsto da altri; un comportamento evitante teso a mantenere una valutazione positiva del sé da parte di altri; episodi di “sconfitta senza una lotta” ovvero di rinuncia aprioristica ai propri obbiettivi.

Queste ricerche sembra confermare le conoscenze che abbiamo sul ritiro sociale durante l’infanzia. Le caratteristiche biologiche e temperamentali del neonato, la relazione madre bambino e il tipo di attaccamento che si stabilisce tra neonato e caregiver sono predittivi dei futuri comportamenti di inibizione del bambino e dell’adolescente (Rubin et al., 2009). Le prime interazioni tra neonato e genitore sono fondamentali per la costruzione di un attaccamento sicuro (Bowlby, 1973; 1982). Quando il neonato ha difficoltà ad autoregolarsi ed è accudito da genitori relativamente insensibili, la possibilità che si sviluppi un attaccamento insicuro è alta, con conseguenze negative sul futuro comportamento sociale, con disagi nella relazioni e con difficoltà nei processi di internalizzazione (Booth-LaForce & Oxford, 2008).

Il comportamento hikikomori ha origine nelle relazioni infantili, quando le spinte evolutive vengono coartate e distorte in funzione dei bisogni di altri membri del gruppo primario. Il bambino nella famiglia hikikomori funge di solito da supporto alla madre per la gestione delle angosce che la donna non è in grado di fronteggiare sia per mancanza di adeguati strumenti cognitivi ed affettivi sia per lo scarso sostegno da parte del proprio compagno, emotivamente lontano dalla vita familiare. La madre si pone al centro del mondo psicologico del figlio rinunciando a sostenerne la crescita emotiva e personale nello spazio mentale condiviso della relazione intersoggettiva. La forma di attaccamento che si configura è di tipo insicuro – ambivalente. Il piccolo, avendo sperimentato l’imprevedibilità della figura materna, tenta di mantenere con lei una vicinanza strettissima, rinunciando a qualsiasi movimento esplorativo autonomo. Se il bambino diventato adolescente è costretto a confrontarsi con il rifiuto da parte dei pari, sia perché isolato, sia perché vittima di bullismo, sia perché incapace di sostenere il ritmo scolastico tenuto dai compagni, la probabilità di un ritiro volontario diventa molto maggiore (Ranieri, 2015).

Un commento su “Hikikomori, dibattito su un fenomeno del XXI° secolo”

  1. Anche le madri di autistici prima erano colpevoli! Ricordate le madri “frigorifero”?
    Oltre tutto, questo. Fatela finita.
    Studiate piuttosto quanti di questi bambini sono nati prematuri, come li hanno trattato al ospedale,quanto hanno permesso alle madri di stare vicino loro.
    Mio figlio è hikikomori, ha 23 anni. Prima del ritiro, (dopo bulling a scuola), fino ai 14 anni, era un “esploratore”, molto sportivo, socievole. Ma era un mancino, distratto e indolente a scuola. Pessimi i professori, solo una -perla rara- si salva. Gli stessi professori potevano sembrare migliori con il mio secondo figlio, destro, razionale, attento, responsabile. Troppo facile! Cosi’ siamo buoni tutti!
    Certi professori fanno solo danni, sono i principali responsabili del bullismo. Bisognerebbe selezionarli con moltissima cura e poi pagarli molto bene. I danni che fanno costano molto ma molto di più, anche in termini economici.

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