La dipendenza da ricerca del rischio estremo

 Fiorenzo Ranieri –

L’argomento di questo articolo è un tipo di dipendenza comportamentale che determina una reiterata ricerca volontaria di rischi. Sebbene in letteratura essa sia stata chiamata “dipendenza da rischio” (ad esempio Michel et al, 2003 o il numero monotematico “L’addiction au risque” della rivista francese Topique, agosto 2009), la denominazione Dipendenza da Ricerca del Rischio Estremo (DRRE) appare più appropriata, dato che la dipendenza è causata dalla ricerca volontaria e non dal rischio in quanto tale. I rischi diventano estremi quando sono continui, caratterizzano lo stile di vita, minacciano gli averi, l’incolumità e l’esistenza stessa della persona. Non sempre è facile distinguere tra rischio come ricerca di esperienze e la pura reiterazione di un comportamento più o meno sempre simile dovuto ad una dipendenza. Quando il carattere ludico e piacevole della esperienza rischiosa si trasforma in una modalità ripetitiva che assorbe l’individuo, consentendogli di allontanarsi dalla realtà quotidiana e da vissuti intrapsichici poco tollerabili, la persona diventa dipendente (Ranieri, 2006). Allora il soggetto utilizza il rischio come soluzione di tutti i suoi problemi, privilegia l’azione alla mentalizzazione, la produzione di sensazioni corporee alle emozioni e ripete le azioni rischiose senza poter rimettere in discussione il suo comportamento (Pedinielli et al., 2005). Cercando di comprendere la natura della Ricerca del Rischio Estremo propongo un modello che cerca di far luce su come i processi psicologici propri della RRE possano riuscire a conquistare un così ampio potere nella vita mentale di un individuo. Ipotizzo che il sopravvivere a una situazione rischiosa è una esperienza emotiva tanto forte da poter determinare, se reiterata, una dipendenza. Il lavoro clinico con pazienti dipendenti dalla ricerca del rischio permette di ipotizzare che nella persona si sia sviluppata una relazione significativa con parti del Sé distruttive. L’esperienza del rischio estremo facilita la nascita di una organizzazione narcisistica patologica alla quale progressivamente l’Io si sottomette. In questo modo l’individuo diventa dipendente dalle potenti sensazioni del rischio che portano piaceri forti ed eccitanti e soprattutto sembrano avere la capacità di difendere dalle angosce. Questa protezione è in realtà illusoria. La persona paga i vantaggi al prezzo di una perdita di fiducia nelle relazioni con gli altri e un progressivo isolamento. Il lavoro clinico con pazienti appassionati del rischio, per altro non facili da coinvolgere in una psicoterapia, è caratterizzato dal costante confronto della coppia terapeutica con le parti del Sé che in modo subdolo e poco apparente esercitano il proprio dominio sul mondo interno. Il riflettere su se stessi appare limitato a favore della ricerca di sensazioni estreme in grado di offrire un momentaneo riparo dalle angosce, un rifugio della mente (Steiner, 1993). La psicoterapia può viceversa offrire uno spazio dove riesercitare la capacità di mentalizzazione (Allen & Fonagy, 2006).

Sebbene la maggioranza degli studi riconducano i comportamenti di voluntary risk-taking a caratteristiche di personalità, la tesi che le forme estreme di ricerca del rischio siano il sintomo di una dipendenza comportamentale sta trovando progressivamente credito. Pannarale (1998) descrive una dipendenza dal rischio e afferma che si distingue dai comuni comportamenti di assunzione di rischio per una differente propensione ad ad esporsi al pericolo, ovvero per criteri diversi di scelta tra i rischi preventivabili. Anche Marcelli & Braconnier (1999) ritengono che il comportamento rischioso, soprattutto quello alimentato dalla ricerca di eccesso, va accostato alle condotte di dipendenza. Pedinielli et al. (2005), provando ad interpretare la psicopatologia delle condotte di rischio, fa riferimento a quattro modelli tra di loro complementari. Il primo considera la ricerca di rischio come una modalità che favorisce la dimensione fisica della sensazione a scapito di quella emotiva; il secondo modello valuta i comportamenti di ricerca del rischio come tentativi di controllare l’emozione causata dall’oggetto libidico da parte di soggetti con un assetto narcisistico carente; il terzo modello vede il rischio come una “condotta ordalica” che si perpetua, il quarto come una vera e propria dipendenza comportamentale. Una persona dipendente dalla ricerca del rischio avrà avuto una esperienza rischiosa di “iniziazione” o “rivelazione” che è all’origine della dipendenza; sarà portato a ripetere le azioni rischiose; ne sarà dipendente, cioè costretto da se stesso a continuare a rischiare senza poter rimettere in discussione il suo comportamento; utilizzerà il rischio come soluzione di tutti i suoi problemi (soluzione generalizzata, sistematica e stereotipata); tenderà a ricorrere al rischio (azione) a scapito della capacità di mentalizzazione; grazie al comportamento rischioso privilegerà la produzione di sensazioni corporee a scapito delle emozioni.

La ricerca del rischio è comunemente associata al piacere per l’eccitazione dovuta alla azione pericolosa, ma una analisi più attenta della condotta rischiosa mette in luce un articolato ventaglio di emozioni. Balint (1959) descrive le situazioni-brivido come momenti caratterizzati da una mescolanza di paura, piacere e speranza fiduciosa in cui la persona lascia e ritrova la sicurezza. Nelle situazioni-brivido si riconoscono i seguenti elementi: coscienza del pericolo reale esterno, esposizione volontaria al pericolo e al timore che viene causato da questa scelta; speranza di tollerare la paura e superare il pericolo; soddisfazione per il ritorno ad una situazione di sicurezza e al sentirsi sani e salvi. Lyng (1990), basandosi su dati tratti dalla osservazione partecipata e interviste semistrutturate condotte con paracadutisti, illustra con ricchezza la fenomenologia del rischio, che egli definisce “edgework” o lavoro al limite. La persona che rischia volontariamente passa da uno stato di paura ad una condizione di felicità ed eccitazione caratterizzata da percezione del tempo focalizzata sul presente e iperrealismo. Una volta che la condotta rischiosa si è conclusa felicemente sopraggiungono sensazioni molto piacevoli di autorealizzazione. I soggetti intervistati da Lyng raccontano di aver provato una sorta di purificazione e amplificazione del Sé e di avere l’impressione di un più elevato livello di autodeterminazione. Anche Le Breton (1991) offre una descrizione dettagliata delle emozioni che si provano nel momento in cui si rischia volontariamente: il senso di vertigine ricercato ad esempio in molti sport estremi; l’affrontamento o confronto con se stessi alla ricerca delle risorse personali di coraggio, forza, resistenza; il candore che prende il posto della ricerca di intensità, ponendo il soggetto in una sorta di autismo provvisorio in cui i legami sociali sono sospesi; le potenti emozioni dovute alla consapevolezza di essere sopravvissuti. La sequenza del brivido è una esperienza altamente emozionale in cui si succedono, come ricorda Grosso (2000), paura, ricerca e ostentazione del coraggio, speranza di farcela; sensazione di dominio (quando ci si accorge che ce la si può fare); eccitazione; soddisfazione di sé (per esserci riusciti) e una sensazione finale, libertaria e confortante, di ritrovata sicurezza.

I diversi autori concordano sulle piacevoli emozioni che completano e concludono la ricerca del rischio. Le condotte rischiose generano sensazioni eccitanti e, risolvendosi positivamente, piacevoli emozioni di sollievo per danno evitato.

Lo “scampato pericolo” può essere definito come un trauma evitato. In un precedente lavoro (Ranieri, 2009) ho proposto un confronto tra emozioni dovute alla ricerca del rischio e quelle conseguenti ad un trauma, più precisamente dovute ad un Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS). Le emozioni descritte dai risk-taker sembrano speculari a quelle vissute da persone che hanno subito un trauma psichico. Horowitz, nel suo fondamentale lavoro relativo all’impatto del trauma sulla personalità (1976), identificò otto tematiche psicologiche conseguenti ad un grave trauma. Di seguito riporto i principali segnali di un disturbo post-traumatico e lo confronto con i comportamenti e le emozioni RRE desunte dalla letteratura appena presentata e dalla esperienza clinica.

Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) Ricerca del Rischio Estremo (RRE)
Dolore e tristezza Piacere e gioia
Colpa per i propri impulsi di rabbia e distruttivi Senso di onnipotenza
Paura di diventare distruttivi Orgoglio per le proprie azioni
Sentimenti di colpa per essere sopravvissuti Fierezza per essere sopravvissuti ( o aver superato) la prova
Paura di identificarsi con la vittima Emulazione delle azioni di altri risk – taker
Vergogna rispetto al sentimento di impotenza e di vuoto Orgoglio per le proprie capacità
Paura di ripetere il trauma Desiderio di ripetere l’esperienza fino alla dipendenza
Intensa rabbia diretta verso la fonte del trauma Attaccamento alle proprie fonti d’esperienza

 

Studi successivi a quello di Horowitz hanno posto in evidenza l’importanza delle risposte soggettive al trauma: il PTSD non può essere interpretato solo alla luce dei fattori esterni stressanti (stressor). March (1993) ha riassunto gli aspetti della percezione soggettiva maggiormente documentati, di seguito confrontandoli con quelli della RRE:

Aspetti soggettivi del DPTS Aspetti soggettivi della RRE
Esperienza di estrema paura Esperienza di estrema eccitazione
Vissuto soggettivo di impotenza Vissuto soggettivo di onnipotenza
Percezione di minaccia per la vita Percezione di invulnerabilità
Percezione di una potenziale violenza fisica Percezione di rischi minimi o nulli per l’integrità fisica

Numerosi studi in realtà indicano che chi ha subito un trauma senza riuscire ad elaborarlo in modo adeguato può ricercare il rischio e che tra i vari esiti di DPTS vi sia uno stile di vita che implica la ricerca del rischio (ad esempio: Bell et al., 2001; Freeman, Roca & Kimbrell, 2003; Bibble et al., 2005; Bell et al., 2001; Pat-Horenczyk et al., 2007; Smith, Leslie & Chamberlain, 2006; Kingston & Raghavan, 2009). Il meccanismo probabilmente sottostante è la necessità di una modalità psicologica di riparazione. Le persone con DPTS ripercorrono esperienze rischiose e quindi potenzialmente traumatiche per fare fronte al proprio senso di impotenza e vulnerabilità. Il tentativo inconsapevole di chi ha vissuto un trauma sembra quello di recuperare almeno in parte la capacità di gestire gli eventi e ridurre il senso di impotenza esponendosi a situazioni pericolose in qualche modo simili a quelle traumatiche con la speranza inconscia di superarle e poi dimenticarle.

Prendendo spunto dalla relazione DPTS e ricerca del rischio, e dalla sua interpretazione si può proporre un modello psicodinamico per la DRRE. Un buon punto di partenza sono gli scritti del già citato Balint che ha proposto due orientamenti nelle relazioni oggettuali: la ocnofilia (spinta alla gratificazione pulsionale dovuta alla relazione con l’oggetto) e il filobatismo (ricerca della promozione del Sé che privilegia spazi liberi dall’oggetto). Per Balint chi sfida la sorte con comportamenti rischiosi privilegia la promozione del Sé (filobatismo): rischiando si illude di non aver bisogno di alcun oggetto interno. Questo iperinvestimento del Sé è dovuto al tentativo di affrontare quello che Balint chiama “difetto fondamentale”, gli effetti di una parte dei traumi originari tra i quali lo psicanalista inglese annovera la nascita, la scoperta che gli oggetti d’amore hanno una vita indipendente, le prime separazioni significative dalla figura materna. La motivazione intrapsichica della ricerca del rischio è il bisogno di attenuare le angosce dovute ad un trauma emotivo e non semplicemente il puro piacere delle sensazioni.

Valleur & Charles-Nicholas (1982), e successivamente Valleur in numerosi scritti (ad esempio 2005 e 2009), hanno avvicinato le condotte a rischio alle dipendenze patologiche utilizzando una originale metafora, quella dell’ordalia. L’ordalia o giudizio di Dio in molte società del passato era una forma di prova giudiziaria mediante la quale la divinità si esprimeva circa la colpevolezza o l’innocenza di un imputato. Di solito si basava su una prova di riuscita, ad esempio una azione particolarmente difficile da compiere. Valleur e Charles-Nicholas riconducono i comportamenti rischiosi alla “condotta ordalica”: la persona che affronta il rischio si affida ad una potenza estrema e assoluta che decide l’esito del comportamento rischioso. Questa sorta di richiesta di un giudizio, dovuta a un bisogno di rigenerazione si accompagna a sensazioni forti e produce un inevitabile processo di ripetizione e progressiva dipendenza. La metafora della condotta ordalica può essere interpretata come il confronto inconscio tra la persona e una entità, evidentemente parte del proprio mondo interno, in grado di offrire un momentaneo sollievo grazie ad un giudizio di innocenza. Se questa interpretazione della condotta ordalica è corretta si può supporre che l’Io di chi ricerca il rischio si rapporta ad una qualche struttura intrapsichica attribuendole il potere di scegliere il destino della persona. L’esito del comportamento rischioso dipende dalla decisione di questa struttura onnipotente che, simile ad un dio dell’antichità, offre perdono, protezione e sicurezza nei momenti di magnanimità, ma che in altri momenti è capace, se irata o contrariata, di determinare danni fino alla morte facendo fallire l’impresa.

È possibile ipotizzare che chi affronta il pericolo e sopravvive possa trovare l’esperienza così significativa non solo perché eccitante, ma anche perché rassicurante. Questo può accadere quando gli oggetti interni buoni resi inaffidabili dalle accuse di non aver saputo proteggere dal trauma il soggetto e vengono svalutati. Se il soggetto, a volte solo un bambino, è coinvolto anche casualmente in condotte rischiose, proverà qualcosa che ricorda la sicurezza, la fiducia, il senso di protezione di un oggetto buono. Naturalmente si tratta di un vissuto emotivo che viene quanto prima ricercato nuovamente dando inizio una sequela di condotte a rischio. Sposando questa prospettiva potremmo considerare i risk taker, alcuni di essi almeno, come persone che cercano di avvicinarsi quanto più possibile ad un trauma per provare, dopo l’eccitazione, il piacere di averlo evitato. Le sensazioni e le emozioni che iperinvestono il Sé si possono organizzare in una struttura psichica interna autonoma, una organizzazione patologica in grado di assumere il controllo della persona ponendola sotto il suo dominio. Si tratta di una dipendenza da una parte del Sé solo apparentemente rassicurante e, seguendo Valleur, in grado di garantire un tranquillizzante verdetto di innocenza. In realtà questa parte è prepotente e capace di spingere verso comportamenti autodistruttivi. Il processo è simile a quello descritto da Meltzer (1973; Meltzer, Williams & Trust, 1992) quando traccia la sua teoria metapsicologica delle perversioni e delle tossicomanie. La relazione tossicomanica che lega la persona ad una parte cattiva del Sé e la sottomette alla sua tirannia ha luogo quando la dipendenza dagli oggetti interni buoni con le loro capacità riparative è resa difficile o impedita per mezzo di attacchi che la danneggiano fino a renderla indisponibile o misconosciuta. La parte distruttiva del Sé si presenta allora alle parti sane sofferenti prima di tutto come protettrice del dolore, poi come servitrice della sensualità, e solo di fronte alla resistenza alla regressione come un tiranno violento. L’organizzazione narcisistica che si è formata con i comportamenti di sfida e ricerca del rischio è temuta ma soprattutto ricercata per la protezione che fornisce. Senza di essa non vi è più argine alle ansie dalle quali il soggetto sta cercando di difendersi. La ricerca del rischio assume così le caratteristiche di uno spazio mentale in cui ci si ritira quando si vuole sfuggire a una realtà insostenibile perché angosciosa, un vero e proprio “rifugio della mente” (Steiner, 1993). Si tratta di una zona della mente in cui trionfa l’onnipotenza e, in fantasia, qualunque cosa è permessa. Il sollievo che si ricava dal ritirarsi in questo rifugio comporta però l’isolamento con compromissione delle relazioni con gli altri e di una perdita di contatto con la realtà che in qualche caso diventa gravissima.

Lo psicoterapeuta che intraprende un trattamento con un paziente RRE dovrà presto confrontarsi con il dispotismo mafioso che governa la organizzazione patologica della personalità. Egli avrà spesso l’impressione di essere uno straniero arrivato in uno stato dominato da un regime dittatoriale: gli sarà possibile parlare liberamente delle cose che vede agli abitanti del posto senza nascondere le critiche, ma i suoi discorsi saranno accolti da silenzi imbarazzati e qualche volta da brevi sorrisi di assenso lanciati in segreto. Il procedere è lento e cauto. Come la Alvarez con i suoi bambini autistici (1992), il terapeuta proverà a “rendere pensabile il pensiero” proponendosi come un interlocutore vivo, animato, in grado all’inizio di nominare e contenere il pensiero, collocandolo poi nel Sé o nell’oggetto per giungere solo in ultimo a discutere con il paziente del motivo per cui lo ha formulato. In alcuni momenti del lavoro il terapeuta si sentirà riempito dei sentimenti angoscianti e distruttivi evacuati dal paziente per mantenere il suo status quo. Molto più frequentemente invece ci sarà un “enactment” e il clinico proverà indifferenza e una sensazione di “normalità” per gli eventi riferiti. Ciò è indotto dal paziente che rinuncia in modo difensivo alla mentalizzazione dato che le idee sono troppo spaventose per essere pensate e i sentimenti troppo intensi per essere provati. Tutto questo sembrava indicare una funzione riflessiva mal funzionante (Fonagy & Target, 2000). La psicoterapia può offrire una interazione benevola e sufficientemente in sintonia con la persona, nello spazio mentale della seduta si potranno incoraggiare le esperienze autoriflessive e interpersonali capaci di promuovere la mentalizzazione degli affetti e più in generale le abilità che rendono possibili il riconoscimento delle emozioni in sé e negli altri e una gestione efficace e competente degli stati emotivi all’interno delle relazioni (Fonagy, Gergely et al., 2002).

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